Sulle bacheche Facebook di alcuni colleghi giornalisti, all’inizio di dicembre 2018, si sono diffuse alcune considerazioni a proposito della lunghezza di un pezzo sul web, basate su considerazioni SEO.
Il punto di partenza è questo.
Sul tema ho risposto sia ad Alessandro Longo sia ad altri colleghi. La mia prima risposta suona così:
«Messa così però è un po’ fuorviante, secondo me. La lunghezza non aumenta necessariamente la leggibilità e quindi i visitatori. E poi – aiuto – già mi vedo le lenzuolate di pezzi pieni di parole vuote perché la SEO funziona meglio (in realtà ci sono già anche quelli da anni, purtroppo).
Cioè, il rischio di questa affermazione è di sfatare una leggenda metropolitana deterministica (solo pezzi brevi sull’internet) con un’altra leggenda metropolitana deterministica (solo pezzi lunghi sull’internet)».
Questa risposta contiene già il succo di tutte le altre considerazioni che si possono fare ma che comunque vanno esplicitate.
C’era una volta una leggenda. Questa leggenda diceva: sii breve su internet. Tanto la gente ha una soglia dell’attenzione bassissima, non supera i 30″ di lettura mediamente e poi a Google piacciono i testi brevi. Soprattutto a Google News.
In questa leggenda ci sono:
- preconcetti
- bias confermativi
- affermazioni non vere
- cherry picking
e altre amenità.
La questione della soglia di attenzione misurata sulla base del tempo medio trascorso su una pagina web è una di quelle metriche che ci piace tanto sbandierare ma che, semplicemente, non ha alcun senso.
Di quali pagine e di quali contenuti stiamo parlando?
Se ho un pezzo da 30mila battute e so che è stato letto per 30″ mediamente, posso desumere qualcosa?
La risposta è: no!
Dovrei sapere come è stato diffuso e a chi, quel pezzo.
Di cosa parla.
Com’era il titolo.
Com’era scritto il pezzo.
Quando è stato diffuso.
Perché è stato scritto e pubblicato e diffuso.
E poi, solo dopo aver messo insieme tutto questo (che poi non è altro che un altro elemento dell’esistenza e del nostro lavoro in cui dobbiamo rispondere alle 5W+H, a cui devono rispondere varie persone del tavolo delle competenze), potrei desumere qualcosa.
Invece, ad un certo punto, nella storia dell’internet, qualcuno ha pensato di dover tirar fuori un dato. Il dato che mediamente le persone stanno su una pagina web meno di 30″. E da questo dato, che non significa niente (quali persone? su quali pagine? per fare cosa? di cosa diavolo stiamo parlando) sono state costruite strategie, sono state prese decisioni. Decisioni che hanno avuto conseguenze.
Ora finalmente sembrerebbe che quella parte lì, della brevità, sia sdoganata.
Ma nel frattempo abbiamo avuto – complice il semaforino di Yoast – la SEO del “fai i pezzi da 300 parole”.
Ora, davvero, spero che non sia il momento della SEO del longform.
Un’abbonata di Wolf, Eliana Frosali, ha partecipato alla conversazione sul profilo Facebook di Mario Tedeschini-Lalli (sono intervenuto anch’io e c’è anche un bell’intervento di Andrea Iannuzzi) ha scritto:
«Lo studio della SEO in realtà dimostra che dipende sempre dall’intento di ricerca. Se cerco approfondimenti invece che risposte rapide a quesiti semplici non mi accontento certo di un post di 300 caratteri. Ma una gran quantità di pagine internet risponde a query tipo ” quanti giorni resiste il cibo scongelato”, “come si accomoda lo sciacquone”, “quali film ha girato Germi”, quindi, per ribadire: il successo dei contenuti su internet dipende non dalla lunghezza ma da quanto piu rispondono agli intenti di ricerca delle persone».
Perché, sì, io stesso sono un teorico dei pezzi lunghi quando servono (per esempio, il mio esperimento sul border collie, ben noto agli abbonati di Wolf e presente nel quaderno SEO, è a tutti gli effetti un longform, ha un ottimo posizionamento su Google, ottimi dati di visite, ottimo tempo di permanenza e via dicendo). Ma la chiave sta proprio nel quando servono.
Il digitale ci ha liberati dalla schiavitù della lunghezza di un pezzo che deve per forza stare in quelle misure del foglio di carta, in quelle battute. E ci ha regalato un mondo in cui possiamo modellare i contenuti sulle reali necessità delle persone che ne fruiscono.
Perché ci ostiniamo a modellarli sulle reali necessità delle persone che li creano?
Forse perché siamo alla ricerca di modelli predittivi?
Allora consentimi una previsione: se c’è una cosa che puoi prevedere per la SEO del futuro è che cambierà al cambiare delle persone.