Questa è una conversazione con Andrea Alfieri, autore de «Il principe digitale di Machiavelli non perdona».
Il problema principale di questa conversazione è che non c’è conflitto. Infatti inizia così: «Andrea, il tuo libro mi è piaciuto. Mi sono divertito a leggerlo».
«Oh, grazie, è un piacere avere questo tipo di feedback».
Tarallucci. Vino.
Ma la questione è più complicata di così e tu che conosci Wolf sai già che non voglio finirla qua, per niente al mondo.
Capiamo, allora, di cosa stiamo parlando.
Il principe digitale è un libro di carta. Ha venduto poco più di 190 copie. Eppure è un bel successo.
Qualcuno potrebbe dire: «Albé, va bene con ‘sta storia della nicchia. Ma davvero pensi che sia un successo?» Dico: «Eh sì, certo che sì».
Perché il progetto funziona così:
- solo libri di carta
- crowdfunding per il libro, venduto solo sul proprio e-commerce
- uso di tecniche di inbound marketing
- stampa del libro per chi lo richiede
- fine dei giochi per chi non lo ha chiesto
- elevatissima personalizzazione di tutta l’esperienza, dal flusso di email marketing fino alla spedizione del prodotto (che ti arriva con dedica a mano, copia numerata, nome dei sostenitori del crowdfunding stampato nel libro)
- rapporto diretto con i sostenitori del prodotto che vengono anche coinvolti nella lavorazione (in questo libro, per esempio, un capitolo è stato scritto da parte del pubblico).
Una buona analisi di queste tecniche è stata già realizzata da Stefania Montemurro
Questa è la mail che è stata mandata ai contatti di Enrico Flaccovio, l’editore, a chi aveva espresso il proprio interesse per l’argomento. Vale la pena di averla qui e conservarla (click per ingrandire), perché è utile da studiare. Se vuoi ti posso mandare tutte le mail che ha inviato Enrico, sono interessanti da analizzare, basta chiedere.
Ovviamente ho comprato il libro – anche se in extremis – l’ho letto e poi, appunto, ne ho parlato con l’autore.
Per spiegarlo in maniera semplice a chi non può averlo, il libro non è un testo sui social media e basta, non ci trovi dentro «i cinque tool per Facebook», ma è un testo di strategia. E per questo motivo ogni capitolo del libro parte da uno dei capitolo del Principe di Machiavelli per riadattarne i consigli al principe digitale. «Io parlo a lui», dice Alfieri, «al “mio adorato Principe”, che è quello che ci tirerà fuori dai casini. Perché là fuori c’è un sacco di gente competente che sa fare le cose».
Quello che ci tirerà fuori dai casini è quello che sa che i social non ti incrementano il fatturato da soli, che il nuovo canale non va fatto gestire per forza solo perché ne parlano i giornali e soprattutto non va fatto gestire dal primo che capita. E tante altre cose che non sono solo buon senso ma sono anche metodo.
La davvero interessante è che il libro è perfettamente coerente con il progetto editoriale.
A.A: «Se la guardi a livello machiavellico, questo è un progetto machiavellico in tutto e per tutto»
A.P.: «Fin dalla creazione e dal consolidamento del gruppo di fedelissimi».
A.A: «Certo. E dall’interazione e dalle idee che ci sono venute. L’esempio ce l’hai con il capitolo scritto dai lettori che però non avevano ancora letto un libro. Abbiamo fatto un brief e abbiamo ricevuto, ad agosto, 10 contributi».
A.P.: «Una strategia che mette in pratica quello che racconti nel libro».
A.A.: «Esatto: usiamo le tecniche che raccontiamo validando il prodotto. Alla fine Flakowski è una startup. Segue delle logiche di startup. Prima di andare in produzione massiva testi e misuri. Fai un prototipo, lo validi con opinioni, feedback».
Andrea è a sua volta un «Machiavelli», non è un frontman né un one man band, anche se per forza di cose nel suo progetto di lavoro si posiziona verso un ruolo da project manager. Ha creato SQcuola di Blog, che è un altro progetto che vale la pena di esplorare. L’illuminazione sulla via dei social l’ha avuta dal 2008.
A.A.: «Sinceramente, non ci sono molte aziende che usano bene i social media. Vedo tanta improvvisazione. Ma il problema è che sono loro stessi estremamente diffidenti, i direttori marketing. Perché non hanno il controllo di questo mondo. Pensa a gente che è abituata a fare pubbliredazionali sui magazine e improvvisamente pensano: “Cosa? Devo rispondere a un commento?”. Poi ci sono quelli che si fanno esaltare da un evento, una presentazione, un video su Youtube e si lanciano, stile Melegatti, e fanno dei danni clamorosi. E poi ci sono quelli che appaltano tutto. E in quel caso c’è troppo distacco tra chi opera e chi ha la visione strategica».
A.P.: «Sì, ma non pensi che sia arrivato un momento in cui è facile tracciare una linea e trovare quelli che i social li usano professionalmente? Come componenti di una strategia?»
A.A.: «Certo. Tecnicamente gli strumenti ci sono. Siamo tutti su un Tripadvisor personale. La gente parla di tutti e diventa sempre più facile capire che reputazione hanno le persone. Il problema è ancora di chi dovrebbe decidere e non sa capire se un professionista è valido o meno. È un marketing diverso, fatto di contenuti, di funnel di conversione».
A.P.: «Eh. A me la cosa che fa paura è che sono parole che usano tutti e rischi che diventino di moda».
A.A.: «Sì è vero, anche perché se andiamo a vedere le competenze richieste (SEO, adv, piattaforme, inbound, creazione di contenuti, video, storytelling copywriting) si capisce bene che non sono cose che possono fare tutti. Non è che uno medico sa di cardiologia, neurologia, pediatria…»
A.P.: «Alla fine, visto che anche tu sei interessato a nicchie e verticalità, è la stessa cosa. Ci vuole una visione d’insieme e poi delle specializzazioni verticali».
A.A.: «È così. È per questo che mi sono creato un network e dalla mia scuola attivo le persone valide su progetti. Il modello di “network professional” è un professionista che è in grado di coordinare dei team, gestire il cliente, usare dei metodi e dei modelli e degli sterumenti di collaborazione, semplificare la complessità del cliente verso i vari componenti del team, possibilmente in tempi brevi. Per poi passare a un altro cliente: il vero consulente è quello che si rende inutile».
A.P.: «Ma è un processo lentissimo».
A.A.: «Ah, certo, come voi in Wolf [era citato nel libro, Wolf, insieme a Valigia Blu]. Ma sul lungo periodo quelli che puntano sulla solidità sono quelli che sopravvivono, non quelli che crescono tanto sul breve periodo. Magari rosichi quando vedi i fenomeni, ma la reputazione è il vero oro. Devi essere qualcosa di importante per qualcuno, non per tutti. Chi fa clickbaiting attira gente che non si fidelizza, non torna da te».
A.P.: «Machiavelli e tanta “filosofia”: non hai paura di diventare un guru?»
A.A.: «Non è il mio stile, non funzionerebbe, con me. Non posso fare il Rudy Bandiera. Non posso scrivere un post come quello di Frank Merenda. Bisogna essere autentici».
A.P.: «Ed è questo che hai trovato in Flakowski? Autenticità?»
A.A.: «Sì. Se Enrico ci vuole lavorare, è un modello esportabile: è un pioniere, ma è la strada giusta, il rapporto diretto, il famosissimo cut the middleman. Riduci la distanza fra domanda e offerta: è lì che va il mondo. Costruisci una base fidelizzata».
A.P.: «Ma per il tuo personal branding non sarebbe stato meglio pubblicare per un grande editore e avere tanta visibilità? [Odio fare le domande e sapere già la risposta, ndA]
A.A.: «A me interessano i miei clienti e quelli che arriveranno, mi interessa la base fidelizzata».
A.P.: «Be’, grazie. È stata una conversazione noiosissima, siamo d’accordo su tutto».
A.A.: «Vero. La prossima volta proviamo a litigare! Però… non abbiamo parlato tanto del libro, no?»
A.P.: «Oh, sì. Tutto il tempo».
Ecco. Se segui Wolf sai perché ero e sono molto d’accordo con Andrea. E se vai a rileggerti le regole della micro attrazione scoprirai che Flakowski e questo libro sono un altro modo di aderire a quelle regole con un contenuto/progetto che ha una serie di caratteristiche specifiche:
- convergente rispetto alle piattaforme
- innovativo
- «quotidiano»
- interattivo
- partecipativo
- «glocal»
- generazionale
- divergente rispetto al mercato