L’8 maggio 2014, Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo L’Espresso, dichiarava: «Anni fa dicevo ai miei giornalisti che scrivere su carta o su web non aveva alcuna differenza, oggi dico loro: siete dei reporter che raccontano storie, ma noi vogliamo vederle, non vogliamo più leggerle». Poi, l’editore sosteneva che i giornalisti, in un prossimo futuro, dovranno essere in grado di rendere «l’elaborazione visiva di un concetto o di una notizia». In altre parole, fare video.
Queste poche righe si trovano nel mio DCM – Dal giornalismo al digital content management e raccontano in maniera molto chiara la modalità di approccio che, da parecchi anni a questa parte, vediamo dedicata al mondo delle immagini, della comunicazione visiva e dei video da parte di editori, publisher e, più in generale, di chi si occupa di comunicazione.
Come sappiamo, questo tipo di approccio purtroppo porta a conseguenze del tipo «bisogna fare video perché tutti fanno video». Personalmente, non sono d’accordo. Ci sono storie perfette per essere scritte, altre per essere raccontate, altre per essere viste. E magari ci sono storie che possono vivere su tutte queste dimensioni mediatiche, purché la declinazione per ciascuna dimensione sia personalizzata (per capirci, se decidessi di fare un podcast di questo pezzo dovrei sicuramente rivederlo per la lettura, avere una buona registrazione audio, magari essere capace di leggerlo senza spersonalizzarlo ma al tempo stesso senza troppe inflessioni dialettali e via dicendo).
La passione generale per la comunicazione visiva si è tradotta, per esempio, nella passione generale per Instagram. All’alba del 2019 mi è capitato di sentir giudicare un paio di agenzie pubblicitarie da persone che mi dicevano «be’, hanno così pochi follower». Come se il compito dell’agenzia pubblicitaria fosse, appunto, avere follower per sé.
Bisognerebbe invece, come sappiamo, ribaltare l’approccio e chiedersi: a che punto sono con la mia comunicazione visiva? Qual è il mio piano editoriale in merito? Sono in grado di fare o farmi fare foto, video, grafica che siano coerenti con l’immagine che voglio dare di me? Tutto questo ha qualche speranza di interessare il mio pubblico, di portarmi un beneficio, di consentirmi di monetizzare, oppure il gioco non vale la candela?
E poi, mentre si parla di comunicazione visiva, bisognerebbe pensare in maniera inclusiva: sai com’è. Nel mondo ci sono quasi 300 milioni di persone che hanno disabilità visive.
A fine 2018, Instagram ha lanciato una doppia funzionalità in tal senso, di cui forse non hai mai avuto modo di accorgerti a meno che tu non abbia letto il post ufficiale, sia fra quei 300 milioni o non ti sia capitato di navigare su Instagram da desktop con una connessione lenta che faticasse a caricare le immagini.
La doppia funzionalità è consiste in
- riconoscimento automatico delle immagini
- possibilità per chi pubblica immagini di editare una sorta di equivalente dell’attributo ALT nell’HTML
In questa immagine puoi vedere di cosa parlo e la differenza.
Quei quadratini sono immagini su Instagram che non si sono ancora caricate.
A sinistra puoi vedere come il sistema va a riempire il campo “alt” con il riconoscimento delle immagini automatico. C’è scritto “Image may contain: text” (l’immagine potrebbe contenere: testo).
Al centro puoi vedere il campo compilato in maniera descrittiva da chi ha caricato la foto. C’è scritto “Image shows red van with “Unbreaking news” writte in white letter on the side parked in front of a row of 3 houses. Snow is failing and a person in a black coat and black trousers can be seen walking to the left of the frame.
A destra, infine, c’è un video. Come vedi non ha nessun attributo di testo associato.
Se un non vedente utilizza un browser che legge i campi alternativi, quel browser gli leggerà le descrizioni delle due immagini. Chiaramente – ancora per un po’ di tempo – il riconoscimento per immagini automatico è decisamente più deludente di quello fatto a mano da esseri umani.
Qui puoi vedere come sono le tre condivisioni su Instagram.
Se vuoi vedere come funziona in termini di codice questa funzionalità, non devi fare altro che caricare Instagram su desktop, aprire una qualsiasi immagine (tipo questa), fare tasto destro –> view page source (o visualizza sorgente) e poi cercare dentro al codice questa stringa:
accessibility_caption
Vedi che ho aggiunto una descrizione a mano, per provare.
Questa funzionalità ci dà qualche informazione sullo stato dell’arte del riconoscimento per immagini e della traduzione in linguaggio naturale da parte delle macchine.
Se provi ad analizzare in questo modo questa immagine, per esempio, troverai con un buon livello di approssimazione quello che al momento, in maniera massiva, le macchine sono in grado di fare con qualsiasi immagine in maniera automatica.
La caption automatica ti dice che l’immagine potrebbe contenere una persona (in realtà ce ne sono altre 4, ma sono fuori fuoco e sullo sfondo, quindi la macchina non riesce a considerarle), che sta giocando a un qualche sporto (la macchina non capisce che è calcio) e che si trova all’aperto.
Ovviamente, questo non ha nulla a che vedere con l’algoritmo di riconoscimento facciale di Facebook ma è qualcosa di infinitamente più complesso, perché il compito che viene dato alle macchine è quello di provare a riconoscere qualsiasi cosa che ci sia in un’immagine.
Una bella illustrazione postata su Twitter da Jerry Hargrove ti dà l’idea dello stato dell’arte di questo tipo di riconoscimenti in casa Amazon.
Da questa immagine potremmo desumere che in realtà il livello del riconoscimento di immagini è un po’ più elevato di quello che ci mostra la caption automatica di Instagram e che non ci vorrà moltissimo per avere delle descrizioni meno meccaniche disponibili a tutti.
Come si fa ad aggiungere in maniera manuale la descrizione?
Quando carichi un’immagine su Instagram devi andare nella sezione delle impostazioni avanzate e trovi la funzionalità apposita.
Inutile che ti dica che mentre fai questo lavoro fai un servizio a chi eventualmente, fra quei 300 milioni di non vedenti, volesse usare Instagram. Ma anche agli algoritmi di machine learning in merito al riconoscimento per immagini.
Se pensi a una strategia di comunicazione visiva, ricordati anche del campo ALT. Per inciso, è quel campo che va compilato anche per la SEO quando carichi un’immagine sul tuo sito. Ma non perché è un trucco. Perché serve alle persone.
(AP)