Nella settimana in cui mezza Europa ha dimenticato per qualche minuto il Covid-19 per parlare di SuperLega sono successe un sacco di cose. Si è sciolto l’iceberg più grande del mondo; si è scoperto che i gas serra sono in aumento perché per la ripresa economica si continuano a usare combustibili fossili in barba a tutti i proclami del post-pandemia. Si è persa di vista la campagna vaccinale per parlare di coprifuoco. Insomma, come al solito, l’attenzione mediatica si è concentrata su quel che era interessante qui e ora.
La SuperLega, insomma, è diventato tema di discussione di massa. In breve: 12 club calcistici fra i più seguiti in Europa (6 inglesi, 3 italiani, 3 spagnoli) hanno annunciato di aver fondato una competizione internazionale chiamata SuperLeague. Le reazioni delle associazioni tradizionali del calcio internazionale (e di molti altri attori, fra cui allenatori, giocatori, presidenti di altre squadre) ufficiale e della politica sono state durissime. In 48 ore, il progetto è naufragato.
Ma perché dovremmo parlarne anche qui?
Per molti motivi. Perché è un caso di studio interessantissimo che può aiutarci a considerare i vari aspetti legati a un lancio di prodotto nel 2021.
La reazione dell’infosfera
POLARIZZAZIONE – Se ti piace analizzare anche il modo in cui avvengono le conversazioni, avrai notato che la questione si è polarizzata subito. Anche con argomentazioni discutibili.
Da un lato c’erano i difensori dello status quo, che sono arrivati a sostenere, fra le altre cose, che il calcio attuale è il calcio “dei campetti”, “del popolo”, che premia “il merito”. Una narrazione tanto fuori fuoco e lontana dalla realtà quanto funzionale, visto che ha fatto un sacco di proseliti.
A contrasto di questa retorica, francamente stucchevole, ti segnalo un bel pezzo di Rivistaundici. E anche questo pezzo che Internazionale ha tradotto dal Guardian.
Dall’altro capo della barricata polarizzata c’erano i sostenitori del nuovo che avanza, paladini dell’innovazione, che hanno raccontato loro stessi come gli unici capaci di pensare una competizione che avrebbe portato «eccitazione e drama mai visti prima nel mondo del calcio». La traduzione è mia, la citazione testuale dal sito internet ufficiale, invece, è scritta in un inglese un po’ zoppicante «will deliver excitement and drama never before seen in football». Per inciso, il sito al momento è una vera e propria cattedrale nel deserto digitale, comunque da analizzare finché siamo in tempo.
INSTANT MARKETING – Ci sono stati, poi, prevedibili interventi di instant marketing, il più famoso dei quali è quello dell’Heineken, sponsor ufficiale della Champions League.
LA STAMPA – Sui giornali italiani gli schieramenti sono apparsi abbastanza chiari: Gazzetta (Cairo) addirittura con un “Fermateli” a tutta pagina.
Poi è seguita un’intervista allo stesso Cairo pubblicata sul CorSera. Se non altro, ad un certo punto si legge che Cairo è «l’editore di questo giornale».
Repubblica (giornale di bandiera di famiglia Agnelli/Elkann) ha cavalcato la retorica della guerra anche in questo caso.
Il giorno dopo, quando la barca della SuperLeague stava già affondando, c’era addirittura, online, l’intervista del direttore Molinari ad Andrea Agnelli, poi ripresa da Gazzetta e altri giornali, facendo vivere a tutti un paradosso: mentre si sapeva già che il progetto era naufragato, si leggeva ancora un incipit fatto così.
In generale, il giornalismo italiano ha rivelato ancora una volta tutti i suoi problemi irrisolti.
Ovviamente le coperture live si sono sprecate. La migliore, a mio giudizio, era quella del Guardian. Fra i contenuti interessanti da osservare come reazioni “social” ti segnalo:
- uno sponsor che abbandona il Liverpool
- il capitano del Liverpool che si erge a capopopolo
- Amazon Prime che dice la sua su Instagram
- un thread di Simon Kuper in cui l’editorialista del Financial Times e autore di Soccernomics dubita ampiamente delle capacità dei manager nel mondo del calcio
E poi, naturalmente, il lavoro sul New York Times di Tariq Panja e Rory Smith (il giornale aveva fatto il vero scoop sul tema).
L’universo memetico – I meme non potevano mancare. In Italia il bersaglio facile è stato il presidente della Juventus Agnelli.
In giro si trovano un po’ di produzioni interessanti, soprattutto di quella fetta di mondo per nulla interessata al tema.
Se analizziamo le componenti viste fin qui abbiamo
- conversazione social (polarizzata)
- reazioni di personalità infuenti, collegate o meno al settore
- copertura e reazioni di giornali (i cosiddetti earned media)
- produzione di meme/instant marketing sul tema del momento (i primi sono da ascriversi a persone qualunque, il secondo, invece, è proprio delle aziende, naturalmente)
Questi quattro elementi vanno tenuti in considerazione quando si lavora al lancio di un prodotto, perché ormai fanno parte integrante non solo dell’infosfera, ma proprio del mondo in cui viviamo.
Se il lancio della SuperLeague fosse avvenuto trent’anni fa, probabilmente le cose sarebbero andate molto lentamente.
I ragionamenti alla base del lancio di prodotto
Questo è il secondo motivo per cui ci interessa parlare di quest’argomento.
La SuperLeague è (era) un prodotto.
Lanciato 12 squadre di calcio che sono media company.
Nel pensarlo come tale, ci sono due elementi da considerare.
Il primo è squisitamente economico. Il calcio è al collasso, le squadre più rappresentative (fra di esse, guarda un po’, tutte quelle che figuravano tra le fondartrici della SuperLeague tranne il Chelsea) indebitatissime.
Il lancio di questo prodotto – che, a giudicare dai rumors di settore, era in lavorazione da 3 anni – nasce dunque dietro a una forte spinta di necessità economica, accelerata dalla pandemia di Coronavirus.
Il secondo elemento è l’economia dell’attenzione.
Il punto di partenza di Andrea Agnelli nell’intervista a Molinari (in verità Agnelli lo ripete da un paio d’anni) è corretto: il calcio ha come competitor Fortnite e Call of Duty. Ma anche Netflix e Disney Plus. Ma anche il feed di Facebook. Insomma: anche il calcio compete per la risorsa più scarsa che abbiamo a disposizione: la nostra attenzione (insieme al nostro tempo). Ecco perché le società calcistiche vanno immaginate come media company. E allora, come possono sperare di avere l’attenzione del pubblico se non costruiscono un prodotto che possa offrire l’eccellenza dell’intrattenimento?
Spinta economica, prodotto d’eccellenza: le ricette per il successo sembrerebbero esserci tutte.
E allora cos’è andato storto?
Semplice e drammatico al tempo stesso: è mancato completamente l’ascolto del pubblico. Semplice perché sembra una risposta quasi banale. Drammatico perché suona quasi incredibile che 12 top club europei abbiano commesso un errore del genere.
Come scrivono su Marketingweek, la SuperLeague è un’idea pensata per risolvere i problemi delle società indebitate. Non per rispondere a un reale bisogno del pubblico.
I 12 hanno lanciato il loro prodotto pensando semplicemente: siccome siamo le squadre più seguite d’Europa, il prodotto funzionerà da solo.
È davvero possibile che sia andata così?
Secondo Simon Kuper sì. E c’è anche un motivo.
Alla base di tutta la debolezza manageriale che si riscontra nel mondo del calcio e di cui la SuperLeague è una cartina di tornasole, c’è il fatto che si tratta di un ambiente molto chiuso e autoreferenziale. I manager sono praticamente tutti maschi bianchi ricchi – spesso avanti con gli anni – e comunque rappresentanti di un punto di vista monolitico, decisamente poco predisposto all’ascolto. In più nei board seguono ex calciatori che non concepiscono il lavoro d’ufficio e che non sanno praticamente nulla di management.
In questo lancio di prodotto che guardava goffamente al futuro sono mancati:
- reale ascolto del pubblico tradizionale (sia in termini di ricerca di mercato sia in termini di ricerca qualitativa sull’audience), come hanno dimostrato le reazioni social
- reale ascolto delle esigenze del pubblico giovane che, a sentire i fondatori del progetto, rifiuterebbe il calcio come prodotto di intrattenimento da seguire
- preparazione al worst case scenario: reazioni politiche e mediatiche dovevano essere messe in conto
- preparazione alla polarizzazione della conversazione
- un lancio con narrazione ad accompagnare il prodotto (no, non basta scrivere «excitement and drama never seen before»), almeno forte quanto la narrazione contraria
- un lancio con testimonial amati dal pubblico a prendere le parti del nuovo prodotto fin dal primo istantre. Florentino Perez, Andrea Agnelli e gli altri manager non sono testimonial: servivano calciatori con enorme visibilità. Che invece sono stati esclusi o non coinvolti. E che quindi, quando si sono esposti, si sono esposti contro oppure hanno taciuto.
- un lavoro relazionale. Visto che il mondo del calcio è comunque un settore chiuso e limitato, è evidente dalle reazioni che i 12 non abbiano fatto alcun tipo di lavoro a monte per convincere gli altri della bontà del progetto (eventuali ricaschi economici sul movimento calcistico internazionale e di giveback sono stati raccontati solamente dopo).
Nelle mancanze eccezionali di questo lancio di prodotto ci sono tutte le lezioni che possiamo imparare per migliorare le nostre strategie, quando parliamo di noi stessi, delle nostre realtà, dei nostri clienti.