La lezione olimpica

Lo spirito di Wolf è quello di raccogliere lezioni dal digitale, facendoci ispirare da ogni situazione in cui possiamo riconoscerci, da cui possiamo trarre insegnamenti, confronti, idee, casi di studio. E quindi, nell’estate del 2021, non potevamo non parlare delle Olimpiadi. Tokyo 2020 è un’ottima palestra per allenarsi a proposito di tante cose che riguardano la content economy. E non solo.

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Cominciamo.

Il valore del contenuto, la massificazione, le nicchie e i social object


L’Olimpiade moderna è senza dubbio di grande interesse per gli appassionati di sport.
Un magnete eccezionale, che è al tempo stesso quasi generalista ma anche di nicchia. Perché al suo interno contiene sport di massa (non sempre con i protagonisti principali, per la madre di tutte le questioni di lana caprina: la celeberrima distinzione fra dilettanti e professionisti), ma anche sport di nicchia (a volte di nicchia assoluta. Pensa al curling alle Olimpiadi invernali). E di tanto in tanto sperimenta aggiungendo sport.

A questo proposito ti consiglio una lettura: La prima volta dello skate alle Olimpiadi, di Flavio Pintarelli per Ultimo Uomo.

«Lo skateboarding», scrive Flavio, «è forse il primo e unico sport olimpico a essere nato e ad essersi sviluppato come una vera e propria sottocultura. Creato come variante di terra del surf negli anni ‘60, fin dagli anni ‘70, con la nascita dello street style, lo skateboarding assume decisi tratti sottoculturali, assimilando elementi estetici e attitudine ribelle dal punk e mescolandoli ai tratti più peculiari della cultura giovanile americana».

Partecipando a una conversazione che si è sviluppata sul profilo Facebook di Flavio, c’è chi ha manifestato preoccupazione per il fatto che, in questo modo, lo skate è stato inglobato dal CIO. Ne è venuta fuori una serie di considerazioni che mi sembrano particolarmente d’interesse per questi lidi. Ho visto preoccupazioni per la massificazione del gioco dopo La regina degli scacchi. Ne ho scritto in un pezzo uscito che si intitola È la dura legge dell’hype. Ecco uno dei miei contributi, in risposta all’idea che non si possano paragonare gli scacchi al surf. 

«Da un punto di vista analitico, quello che ci interessa scacchi, surf, skate, tennis, calcio, uncinetto, sudoku, go, running, lettura di libri sui vampiri, il prossimo interesse che non esiste ancora e che esisterà, mettici quello che vuoi, sono “social object”, cioè “oggetti”, “cose” che attirano comunità di persone interessate e praticanti a diversi livelli e con diverse modalità.Quindi, ok, non possiamo paragonare il modo in cui un determinato “social object” si pratica, ma possiamo assolutamente sovrapporre le dinamiche che caratterizzano una comunità di persone, dall’essere di iper-nicchia fino alla popolarità estrema. Posso capire il timore di farsi inglobare dal CIO, ma non credo che un percorso di (eventuale, perché mica è detto che poi succeda) massificazione di un “social object” ne cancelli la cultura, le fondamenta, i valori o ciò che è necessario per praticarlo in un determinato modo».

In effetti, curiosamente, parlando di social object Mafe de Baggis citava, per Wolf, proprio i surfisti.

E, a proposito di curiosità, fino al 1948 alle olimpiadi partecipavano anche artisti (musicisti, poeti, scultori e architetti dilettanti).

Ce n’è per tutti i gusti, insomma. E se c’è un insegnamento che potremmo trarre per i nostri fini, è che potremmo individuare comunità per tutti i gusti, anche all’interno delle medesime nicchie, in un processo frattale.

Allora, quando avrebbe senso fermarsi?

Verso l’alto è semplice: essere generalisti, oggi, è difficilissimo. Quasi impossibile (per convincertene, il prossimo capitolo ti dà qualche idea su quanto sia difficile mandare in onda e coprire un evento come le Olimpiadi).
Quindi, spacchettare, spacchettare, spacchettare!
Dall’altra parte, però, il limite è la dimensione della sostenibilità. Ha senso fare un progetto per nostalgici del tennis di una volta? Se hai le prove che i nostalgici del tennis di una volta sono tanti, dacci dentro!

La messa in onda del magnete e l’archivio

La Rai su un unico canale, RaiDue manda in onda tutto. Questo significa, in un evento con molteplici eventi contemporanei, che c’è un problema di scelta. Per esempio, nella prima giornata non si è visto il match point di Fognini e ha interrotto la diretta di Sonego sul 5-6 al terzo set: due momenti topici per il tennis, sacrificati per spostarsi a seguire la diretta del ciclismo su strada, senza atleti italiani che potessero far la differenza e a parecchie decine di chilometri dalla conclusione della gara.
In più, la Rai non ha i diritti per lo streaming né per gli eventi on demand: in sostanza, o te lo vedi in diretta (e ti vedi quel che sceglie la regia italiana) o non lo vedi più, se ti fermi al servizio pubblico.

Così, ho deciso di provare l’offerta di Discovery+ che, per 7 euro al mese (disdici quando vuoi! Ti ricordi il mantra della frictionless in uscita? Nell’era che stiamo vivendo non puoi trattenere in un recinto le persone che pagano. Sì, dico proprio a te che hai pensato alla pec per farmi disdire un abbonamento a un giornale!) offre tutte le olimpiadi.

Tutte vuol dire che puoi scegliere fra alcuni eventi che hanno anche il commento in italiano, o puoi vederne altri senza commento o col solo commento in inglese.

Tutte vuol dire anche che in un evento come la ginnastica a squadre, dove ci sono squadre diverse che gareggiano contemporaneamente su attrezzi diversi, costringendo la regia lineare a prendere delle decisioni anche in streaming, puoi seguirti il tuo extra feed.

Qui nella foto un esempio.

Sulla tv collegata al mio Mac c’è il feed dell’attrezzo che in quel momento vede impegnate anche le atlete italiane. Sul Mac c’è invece la regia internazionale che segue le prime in classifica.

È un consiglio che è arrivato proprio dai conduttori: «Attrezzatevi con vari device per seguire la diretta che preferite».

Tutto bene per le dirette.

Meno bene, invece, on demand. C’è tutto, intendiamoci. Ma diciamo che vuoi vederti, che so, la finale della Sciabola uomini. Ecco che ti ritrovi in una trasmissione che in linea dura 2 ore e più perché c’è sia la finale terzo-quarto posto sia la finale per il primo posto. E se tu vuoi andarti a vedere solo la finale per il primo posto, devi scrollare un po’ a caso sulla timeline, perché non c’è un indice.

E così speri che, più o meno a metà, troverai quel che cercavi.

Qui c’è una grande lezione rispetto al valore di un archivio. Dato l’orario (molte gare si svolgono nottetempo) e anche dato il fatto che non è detto che si possa passar la giornata davanti alla televisione, se hai i diritti per un archivio dovresti pensare a rendere questo archivio gradevole e fruibile dal punto di vista della ux.

Ma poi ci sarebbe la questione cruciale: per quanto tempo? Per quanto tempo è valido un archivio? Quand’è il momento di rinunciarci?

La questione sembra semplice, ma non lo è affatto. Perché se lavoriamo con i contenuti (e con le relazioni che questi contenuti abilitano), dobbiamo anche porci il problema dell’archivio. Sia dal punto di vista di quel che facciamo come produttori di contenuti sia dal punto di vista di chi ne fruisce e ne fruirà.

E per convincertene, ti consiglio di leggere questo pezzo pubblicato sull’Atlantic: What Will Happen to My Music Library When Spotify Dies? Il sottotitolo fa così: «Se la tua collezione è su un servizio di streaming, buona fortuna se pensi di accedervi tra 10 o 20 anni».

Forse, però, l’archivio è un prodotto di nicchia. Per la nicchia dei collezionisti. È una nicchia sufficientemente remunerativa da rendere un progetto sostenibile? Chissà.
Quel che è certo è che non possiamo rinunciare al presente per amor del passato. Ma non possiamo nemmeno rinunciare alla documentazione di quel che è stato e alla sua conservazione, recupero e fruizione.

Dove si colloca l’equilibrio, nell’era della sovrapproduzione dei contenuti? Davvero difficile a dirsi.

Il suggerimento pratico, qui, è semplice: se produci contenuti, poniti da subito il problema. Puoi decidere per l’impermanenza totale. Per la conservazione di qualcosa. Per un meccanismo fluido e adattabile. Ma tutto questo richiede lavoro di manutenzione.

Togli un 20% alla produzione dei contenuti. Dedica un 20% alla manutenzione e valorizzazione dell’archivio. È una strategia che può darti grandi soddisfazioni. Certo, se aspetti che l’archivio venga visitato spontaneamente, senza alcuna sollecitazione, allora tanto vale rientrare nella ruota del criceto. Anche l’archivio richiede la sua delivery.