Come sappiamo, Facebook e Google hanno, ciascuno a modo proprio, dichiarato guerra alle cosiddette fake news.
La definizione inclusiva che abbiamo scelto di dare a questo abusatissimo termine è:
Le fake news sono contenuti diffusi a scopo di profitto, che propongono fatti completamente falsi oppure manipolati oppure rappresentati in maniera parziale e incompleta oppure alterati o enfatizzati in alcune parti.
Il profitto di cui si parla, naturalmente, può essere economico o politico, può essere mera soddisfazione personale, posizionamento o altro
Google ha pubblicato di recente un documento che spiega come si sta comportando la piattaforma per fare la sua parte in questa “guerra alla disinformazione”. Come in una puntata di The Good Fight che abbiamo citato parlando di hate speech, il documento si preoccupa tanto per cominciare di dare una definizione di disinformazione (se non altro, si sfugge alla trappola delle fake news).
Eccola qui:
«Ci riferiamo a questi sforzi deliberati per ingannare e fuorviare usando la velocità, la scala e le tecnologie del web aperto come “disinformazione”»
La prima cosa che salta agli occhi rispetto a un tentativo di definizione inclusiva è il fatto che qui si parla di disinformazione solamente quando essa è volta a usare alcune caratteristiche del web. Verrebbe voglia di far le pulci alla definizione anche solo per il fatto di precisare “tecnologie del web”.
D’altro canto, non possiamo aspettarci nulla di diverso: è l’ambito in cui Google opera, quello del web, ed è lì che cerca di dare il proprio contributo.
Poco dopo questo sforzo di definizione, se non altro, il documento precisa una serie di punti molto importanti (la traduzione è del sottoscritto):
Affrontiamo problemi complessi e non ci sono “proiettili d’argento” che risolveranno il problema della disinformazione, perché:
- può essere estremamente difficile (o addirittura impossibile) per gli esseri umani o per la tecnologia determinare la veridicità o l’intento che c’è dietro a un certo contenuto, specialmente quando si riferisce a eventi contemporanei
- le persone ragionevoli possono avere diverse prospettive sul giusto bilanciamento tra il rischio di danneggiare la buona fede, la libertà d’espressione, e l’imperativo di affrontare la disinformazione
- le soluzioni che troviamo si devono applicare in modi che siano comprensibili e prevedibili per i consumatori di contenuti e per i creatori di contenuti, e compatibili con il tipo di automazione che è richiesto quano si offrono servizi operativi su tutto il web. Non possiamo creare standard che richiedano approfondimenti per ogni singola decisione
- la disinformazione si manifesta in maniera diversa su differenti prodotti e piattaforme. Le soluzioni che possono essere rilevanti in un contesto, potrebbero essere irrilevanti o controproducenti in un altro
Queste premesse sono un po’ più rassicuranti del tentativo stesso di Google di affrontare la disinformazione perché, se non altro, riconoscono e in qualche modo definiscono la complessità del problema.
Le tre strategie implementate da Google sui suoi prodotti (la Search, Google News, YouTube e Google ADS particolare) sono sostanzialmente tre:
- promuovere contenuti di qualità nel sistema di ranking
- contrastare le azioni maliziose rispetto alle policy delle piattaforme
- dare ai consumatori di contenuti più contesto
Queste tre strategie si declinano in maniera diversa sui vari prodotti di Google. Sappiamo da tempo, per esempio, che per Google News sono richiesti (almeno in teoria) standard alti per poter entrare a far parte dei siti selezionati. Sappiamo anche che essere nel box in alto di Google News (quello integrato nelle SERP “tradizionali”) ci sono lotte esasperanti fra siti di dubbia provenienza oppure fra siti che si occupano di argomenti diversi da quelli per cui competono, cercando disperatamente di dragare click su temi caldi. Lo abbiamo raccontato abbondantemente spiegando la strategia SEO del Post per aumentare il volume di traffico. Sappiamo che Google fa partnership con realtà che si occupano di fact checking, che si trasforma anche in finanziatore del “buon giornalismo”, sappiamo che sono cambiati i requisiti per finire fra i video “raccomandati” di YouTube. Il documento insiste molto sui concetti di qualità delle informazioni che vengono proposte da un contenuto, sulla trasparenza e sul contesto. Sappiamo che Google continua a lavorare sul suo algoritmo, che si rivolge a dei quality raters e via dicendo.
Per quel che ci riguarda, dovrebbe essere una musica che conosciamo molto bene. Le raccomandazioni implicite che escono da questo documento continuano a riguardare:
- la qualità del contenuto
- la trasparenza
- l’autenticità
E tanti altri bei concetti che Google racconta da anni e che, ovviamente, vengono prontamente disattesi da chi desidera fare profitto cercando di aggirare le regole.
Ma questo a noi non deve interessare, perché noi, qui, tendiamo alla massima ecologia degli ecosistemi in cui viviamo e lavoriamo.
Dal punto di vista del posizionamento sui motori di ricerca di Google, a me, francamente, sembra che non cambi proprio nulla rispetto a quello che abbiamo raccontato e stiamo raccontando nel quaderno SEO di Wolf.
Molto più interessante, invece, la parte del documento dedicata ai soldi. Follow the money è sempre più utile di riempirsi la bocca con la qualità!
Vale la pena di ricordare che per anni Google ha consentito di acquisire annunci pubblicitari basati su keyword di brand (ad esempio, Alberto da casa sua poteva acquistare annunci pubblicitari su Google basati sul brand FIAT, poi poteva puntare a un sito che non c’entrava nulla con la FIAT ed erogare su quel sito pubblicità attraverso lo stesso Google, allo scopo di generare profitto senza alcun valore di ritorno). E che questo ha consentito a Google di fare un sacco di soldi e di intensificare il suo monopolio e poi di chiudere i rubinetti a chi faceva queste “cattive pratiche” una volta che si era portato a casa il fatto che la FIAT si comprava gli annunci sulla keyword FIAT. Non esattamente un comportamento etico, giusto?
Bene. Detto questo, uno dei modi per contrastare la disinformazione è senz’altro disincentivarne la monetizzazione. Solo che ritorniamo a bomba al problema principale: come fai a farlo? Come fai a evitare di punire qualcuno che, autenticamente, lavora per informare e magari basa un pezzetto dei propri ricavi su entrate programmatic da Google? Le tecniche messe a punto non sono male. In primo luogo Google chiarisce:
- pensiamo che la monetizzazione sulle nostre piattaforme sia un privilegio.
È un approccio che personalmente ritengo corretto. Se vuoi beneficiare dell’apporto economico monetizzando i tuoi video su YouTube devi rispettare le regole della piattaforma. Se vuoi, però, c’è un problema: non ci sono organismi terzi di controllo. Ti devi fidare di quel che dice Google.
Poi le azioni concrete intraprese da Google sono, essenzialmente:
- disabilitare la monetizzazione su siti che fanno “scraping” di contenuti di altri
- disabilitare la monetizzazione (e diminuire il ranking) su siti che mentono sulla propria provenienza (ad esempio, scrivo “In diretta da Bruxelles” mentre copro un fatto di cronaca e poi le mie attività sono tracciate tutte dalla Nuova Zelanda)
- disabilitare la monetizzazione rispetto a chi ha comportamenti non in linea con le policy di Google stesso
- creare contesto per le persone spiegando loro perché vedono un annuncio pubblicitario
Sono sicuramente misure molto interessanti e alcune sono condivisibili e auspicabili.
Ma non credo che il problema si risolverà così: si troveranno altri modi per veicolare concetti. Le notizie “false” hanno sempre trovato altri modi per diffondersi. Possono assomigliare tremendamente a notizie “autentiche” (non uso apposta la parola “vere”). Se i giornali e i produttori di contenuti in generale si dotassero di buone pratiche per evitare di doversi affidare a Google come custode e censore, sarebbe tutto molto più semplice. E anche meno pericoloso.
Come ricordiamo più volte, il problema delle piattaforme non va affrontato lasciando loro il compito di creare nuove regole o obbligandoli a censure preventive. Andrebbe affrontato, se mai, dal punto di vista dell’antitrust.