Se le estati nell’era dei social sono caratterizzate da tormentoni che ci raccontano un ecosistema mediatico dalla memoria corta, c’è un altro fenomeno che continua a imperversare nel mondo che cerchiamo di raccontare e nel quale proviamo a orientarci su Wolf.
È il fenomeno delle morti premature. Ti ricorderai, per esempio, senz’altro della morte di Facebook. O di quella di Snap(chat).
Qui puoi vedere l’andamento delle azioni di Snap dall’IPO in avanti. Certo: non è l’unica metrica di cui tener conto. Ma di certo non stiamo parlando di un’azienda agonizzante, almeno per ora. E anche a casa Twitter, per dire – altra azienda che in molti davamo per spacciata, me compreso, incautamente – ci sono segnali di ripresa. Al punto che Ben Thompson, su Stratechery, a fine aprile 2019 fa parlava dei primi segnali di qualche scricchiolamento del solido duopolio Google-Facebook. C’è spazio per altri, insomma.
Queste poche righe servono per introdurre il tema che fa battere palpebre, cuori e dita sulle tastiere in questi giorni, e che per alcuni sarebbe la fine dell’influencer marketing.
Detto che il tema è delicato e che molti media tradizionali auspicherebbero che le cose stessero proprio così (se l’influencer marketing fosse in prossimità di chiusura dei battenti, magari pezzi di budget di investitori pubblicitari potrebbero tornare ai giornali, per esempio), bisogna andarci cauti con questo tipo di affermazioni.
Tutto nasce da uno studio di InfluencerDB pubblicato il 9 luglio 2019 su Mobile Marketer. Titolo perfetto per ricamarci su: «Uno studio dice che l’engagement degli influencer su Instagram è ai minimi storici». È importante notare che InfluencerDB è un servizio che offre accesso a database di influencer, per trovare quelli giusti per te. Questo non significa che il loro studio non sia corretto, chiaramente. Ma che è uno studio eseguito da un’azienda che in un certo senso ha tutti gli interessi a far passare il messaggio: «occhio, perché se gli influencer non influenzano, hai bisogno di strumenti per trovare quelli giusti».
E in effetti, se si legge lo studio per intero, si scopre che dice questo:
«In confronto al 2018, la media del “Like Follower Ratio” (LFR) – cioè, numero di like rispetto al numero di follower – è in decrescita in tutti i settori che misuriamo: il mondo beauty, la moda, il cibo, il lyfestile, i viaggi, lo sport, il fitness […] Il fatto che all’aumento dei follower decrescano i like non è una novità. Ma le nostre comparazioni mostrano quanto siano potenti i piccoli account. Gli influencer con 1000-5000 follower hanno un LFR medio di 8,8%. Raddoppiando il numero dei follower, la media diventa meno della metà (3,8%)».
Ottimo, quindi mi serve proprio un tool per andare a scovare i micro-influencer, giusto? Magari potrei provare… InfluencerDB!
A parte le battute, questo studio ci racconta un’evoluzione naturale delle piattaforme social.
All’incremento del numero di persone che hanno numeri significativi di follower e che pubblicano contenuti sulle piattaforme social, chiaramente non può che corrispondere un decremento del tasso di engagement, prché i contenuti di queste persone si diluiscono in un ecosistema sempre più popolato di contenuti. Non è poi tanto diverso da quel che è successo con l’allarme lanciato per il crollo della reach organica, con la cosiddetta reachapocalypse (per la quale abbiamo fornito alcuni consigli per la sopravvivenza: qui e qui. Spoiler: l’apocalisse non c’era mai stata!)
Poi, siccome a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, non dimentichiamoci che il decremento dei tassi di coinvolgimento delle persone sulle piattaforme social fa sì che le medesime piattaforme beneficino – in termini di budget spesi per promuovere i contenuti – della situazione stessa.
Detto questo, è in calo anche l’engagement medio dei post sponsorizzati, anche se si mantiene superiore a quello dei post organici.
Il post di accompagnamento di InfluencerDB si conclude così (la traduzione è sempre del sottoscritto)
«L’influencer marketing sta cambiando? Certo! Questo significa che gli anni fiorenti dell’influencer marketing sono finiti? Non proprio. Le tendenze dell’influencer marketing si evolvono e continuano. Come ogni altra industria, si adattano allo sviluppo del mercato e alla crescita delle aspettative della società. L’età dell’oro forse è finita e le aziende non possono più usare un approccio “spray and pray” (letteralmente: “spruzza e prega”) per ottenere risultati. L’industria matura e sta diventando diversa, responsabile. Il successo si ottiene con il coinvolgimento e con campagne responsabili, che ragionano con il pubblico al centro e che sono pianificate strategicamente».
Così va meglio. Non è la fine dell’influencer marketing. È il fine, che va rimesso in discussione. Il fine erano forse le metriche di vanità? Quelle quantitative? E allora era sbagliato.
Il fine dell’influencer marketing è qualitativo, prima di tutto. Si usa per far collaborare aziende e persone che abbiano la loro influenza su una certa nicchia di pubblico e lavorare coerentemente rispetto a prodotti, valori, pubblico, identità del brand dell’azienda, identità del brand dell’influencer e via dicendo.
Il lungo periodo, come al solito, è più complesso di quanto ci piacerebbe nella lettura frenetica e ansiogena della nostra quotidianità.
(AP)