Ogni volta che mando una proposta a una nuova testata, ho sempre paura che mi rispondano: «Proposta interessante, ma tu quanti contatti hai su Facebook? Quanti follower su Twitter?». Fortunatamente, non è ancora avvenuto niente del genere, anche perché la speranza è quella di costruire un circolo virtuoso, in cui scrivere su determinate testate consente di aumentare il bacino di persone che ci segue direttamente. Diversamente, si creerebbe un circolo vizioso, in cui aspiranti giornalisti non riescono a pubblicare perché non hanno un seguito, e non riescono a costruirsi un seguito perché non pubblicano articoli (pagati) su testate note.
D’altra parte, le testate online danno una certa importanza alla «socializzazione» dei pezzi da parte degli stessi autori; un aspetto che nel futuro diventerà sempre più importante, per ragioni riassunte perfettamente da Gabriel Stein su Medium: «Facebook ha stabilito un limite con gli editori, ma questo non sembra essere il caso delle pagine individuali: il network è ancora alla ricerca di un certo tipo di intellettuali che prendano Facebook sul serio come prendono Twitter. Alcune di queste pagine individuali possono essere grosse fonti di traffico per le testate affiliate».
Il concetto è semplice: dal momento che la reach degli editori su Facebook sta crollando, a differenza (secondo quanto sostiene Stein) di quella delle pagine personali, queste ultime diventeranno sempre più importanti.
C’è poco da stupirsi: ci sono giornalisti in grado, grazie alle loro fanpage, di garantire agli editori una certa quota di visualizzazioni e quindi di monetizzazione. Ogni articolo che scrivono, fondamentalmente, si ripaga almeno in parte nel momento in cui viene condiviso da firme stranote come Saviano (2 milioni e 300mila fan su Facebook), Travaglio (1 milione e mezzo), ma anche da chi ha numeri decisamente meno importanti; com’è il caso di Lerner (170mila fan), la cui pagina personale su Facebook è fondamentalmente la pagina fan del suo blog, parte della galassia Banzai.
Ecco, il caso di Gad Lerner è emblematico: il blog di un giornalista diventa una testata, mentre il giornalista diventa un marchio (anche perché la maggior parte degli articoli sono scritti dal bravo Andrea Mollica). Siamo arrivati al punto: il giornalista del futuro deve diventare un marchio riconosciuto, lavorando sul personal branding (se ne parlava su Wolf qui, facendo riferimento alla politica e in termini giustamente critici), individuando e raggiungendo una nicchia che si faccia anche carico di contribuire alla diffusione del lavoro.
Ma se il giornalista diventa l’editore di se stesso e la pagina Facebook o il profilo Twitter gli strumenti attraverso il quale veicolare i contenuti, che fine fanno gli editori? Il tema si fa decisamente complesso, anche perché ci sono parecchi scenari possibili (relativi, per esempio, alle testate native digitali che devono offrire solo contenuti unici, lasciando il campo delle news ai marchi tradizionali; argomento di cui si può leggere qui).
Al netto dei vari scenari, proviamo a individuarne uno che rientra perfettamente nel quadro che stiamo disegnando e che, ancora una volta, è stato ben sintetizzato da Gabriel Stein: «Ho il sospetto che sia solo una questione di tempo prima che alcuni editori comincino a operare più come agenzie, promuovendo il “brand” degli scrittori oltre a quello della testata e provvedendo a fornire agli autori servizi di social management, opportunità di monetizzazione e affiliazione con altri autori affini, in cambio della loro fedeltà e del parziale controllo dei loro canali social».
Vi sembra uno scenario così improbabile? Sicuramente ci sono parecchi rovesci della medaglia, ma in un mercato in cui il ruolo del giornalista è spesso più importante di quello della testata (pensate al rapporto Travaglio/Il Fatto Quotidiano) sembra un’ipotesi plausibile.
Una piattaforma come Blasting News ha in parte (e in maniera diversa) intuito tutto questo, rendendo l’autore il responsabile della diffusione del suo stesso pezzo e pagandolo in base ai click conquistati. Il bassissimo compenso offerto ha però spinto tutti i «blaster» a puntare esclusivamente sul giornalismo SEO più deteriore, producendo orrori che Google sta finalmente punendo. D’altra parte, sarebbe stato impossibile per gli autori investire nella costruzione di un seguito social per promuovere articoli pagati in media 3-4 euro ogni mille click.
Se il compenso fosse stato più alto (per qualsivoglia ragione), nulla avrebbe impedito ad alcuni autori di puntare di più sui social network (magari anche investendoci dei soldi) per diffondere articoli di qualità. Nulla di questo è avvenuto, ma il concetto non è troppo dissimile da quanto prima descritto: la piattaforma si occupa di trovare il modello di business più adatto e di monetizzare l’articolo; il giornalista si occupa della scrittura e diffusione del pezzo in totale libertà.
Si tratta di ipotesi grezze, che tratteggiano uno scenario ancora là da venire e che comunque sarebbe pieno di controindicazioni. Prima di tutto, piattaforme come Blasting News sembrano costruite per scaricare il rischio d’impresa sul giornalista e ritirarsi in buon ordine appena il giochino finisce. Secondo: per investire tempo, soldi ed energie nella creazione di un bacino di seguaci sui social bisognerebbe avere la ragionevole certezza che Facebook non decida di pugnalarci alle spalle da un momento all’altro, lasciandoci con un pugno di mosche. Terzo: tutto ciò farebbe cadere nel nulla l’idea che i social vadano usati come mezzo di promozione, più che come canale di distribuzione, proprio per non cadere nei rischi appena accennati.
E quindi, tanto rumore per nulla? In verità no, visto che stanno nascendo le prime piattaforme che hanno l’obiettivo di creare un network di autori che voglia promuovere i propri contenuti, saggi, video e articoli di approfondimento, dando loro la possibilità di monetizzare in svariati modi. Una di queste è Heleo.
Fondata dall’imprenditore seriale Rufus Griscom, Heleo si rivolge a un preciso settore demografico: le «one person media company». Per raccontare di che si tratta, mi affido al sintetico riassunto che ne ha fatto Fast Company.
«Per iniziare, Griscom ha reclutato persone che avevano costruito un ampio seguito attraverso i loro blog, i loro libri, i loro discorsi o i loro spettacoli in tv. Nel momento del lancio di Heleo, Griscom si è concentrato sull’ingaggiare “pensatori” che avevano creato dei brand personali di successo grazie a libri o discorsi su temi come il business, la scienza e il “self-improvement”. In altre parole, il tipico speaker di un TED Talk. (…) Ma se anche queste persone hanno riscosso un grande successo dispensando le loro idee, non tutti avevano provato a distribuire o monetizzare i loro contenuti senza l’aiuto di un editore di qualche altro intermediario. Molti di loro non sono nemmeno attivi sui social».
«Con Heleo, Griscom dà a questi pensatori un blog dove possono diffondere contenuti tratti dai loro libri o dai loro discorsi per attirare più seguaci. Dà loro anche un luogo dove vendere libri, video o qualunque altro contenuto possa interessare i fan. Heleo genera i suoi introiti da queste transazioni dirette, piuttosto che dalla pubblicità, prendendo il 50% di quello che gli autori riescono a guadagnare. Heleo rende più facile anche la diffusione dei contenuti attraverso i social media, consentendo la crescita dell’audience».
Ci sono un po’ di perplessità riguardo il funzionamento di questa piattaforma: in primo luogo non è pensata per i giornalisti (ma è chiaro che uno strumento del genere possa funzionare anche per loro), ma soprattutto non si capisce perché sottolineare come Heleo permetta di saltare gli intermediari quando la piattaforma svolge la stessa funzione, per di più prendendo il 50% degli introiti.
Il punto, però, non è quello di iscriversi a Heleo, ma di tenere d’occhio una possibile ulteriore strada alternativa a quella (terribile) che viene normalmente proposta ai giornalisti freelance. Nel percorso verso «l’economia delle soluzioni parziali», lavorare per costruirsi un seguito piccolo ma affezionato, individuare un settore forte – e non ancora invaso – in cui costruirsi una certa autorevolezza e porre le basi del proprio «brand personale» significa avere in mano qualcosa che, un domani, si dovrebbe riuscire a monetizzare.