Una delle cose più impressionanti che impari quando entri dentro la profondità del sistema giornalistico e mediatico degli USA è il fatto che ci sono una pletora di organizzazioni che producono contenuti di grandissima qualità, che danno da lavorare a molte persone, che sono occasione di apprendimento per giovani e giovanissimi che imparano facendo (il Daily Iowan è fatto, dal 1868, da studenti!) e che hanno una cosa in comune: sono sostenute da meccanismi no-profit. Fondazioni, donatori singoli, privati, aziende. I budget sono a volte impressionanti: il già citato Daily Iowan ha un budget di 4,5 milioni di $ l’anno. Il CIR (centro per il reportage investigativo), da 11 milioni di $ l’anno.
È chiaro che ci siano grosse differenze sociali e culturali, fra Italia e USA. Ma qualcosa di importabile c’è sicuramente.Per questo motivo ho iniziato ad esplorare come leva di monetizzazione il fundrising. Grazie a uno dei giornalisti che ha partecipato con me all’IVPL (Alessio Caspanello, fondatore e direttore di LetteraEmme) sono entrato in contatto con Letizia Bucalo, con cui ho chiacchierato un po’ via WhatsApp e poi via mail. Letizia si presenta così:
«Ho 40 anni, sono siculo-francese e sono responsabile comunicazione, marketing e fundraising del Centro Clinico NeMO SUD da quasi 7 anni. È un luogo speciale che ha già sostenuto, aiutato e migliorato la qualità di vita di più di 3.500 famiglie che lottano contro una malattia neuromuscolare.
Sono avvocato ma ho scelto di non esercitare questa professione.
In realtà, sin da ragazzina, sono sempre stata vicina al mondo del Terzo Settore. Prima come volontaria, poi organizzando eventi di raccolta fondi, sino ad arrivare (ormai quasi 10 anni fa) alla decisione di fare di questa passione una professione.
Sono ideatrice di più di un centinaio di eventi e di decine di campagne di raccolta fondi. Gestisco personalmente gli account social dell’ente per cui opero e curo ogni singolo aspetto relativo alla comunicazione sui social media e su stampa.
Scrivo i progetti nati dai desiderata dei pazienti e dei clinici del Centro NeMO e trovo grande gratificazione nel vederli realizzati.
Vengo contattata spesso per raccontare del mio lavoro e recentemente ho tenuto delle lezioni anche in Umbria insieme a Non Profit Factory.
Ho ricevuto riconoscimenti nella mia città e mi hanno tutti onorata.
Non è cosa semplice fare e parlare di fundraising in Sicilia…
Nel maggio di quest’anno sono stata sul podio dell’Italian Fundraising Award (sì. Una figata).
Sono referente territoriale in Sicilia di ASSIF, Associazione Italiana Fundraiser, unica associazione italiana dedicata a chi esercita la professione (www.assif.it)».
Dal nostro viaggio in USA ci siamo resi conto di quanto sia importante per l’ecosistema giornalistico il modello “no profit”. Con singoli donatori, fondi, aziende private che finanziamo. Pensi che sia una cosa replicabile anche in Italia?
«In Italia si è ben distanti da ciò che hai visto negli Stati Uniti. Ma la risposta è sì. È possibile ma non immediatamente attuabile. Perlomeno non a Milano come a Palermo. È necessario un cambiamento culturale che non può certamente avvenire in poco tempo. Nel nostro paese si parla di fundraising da più di venti anni. Ma non in tutta Italia.
Nel Sud, ad esempio, sono ancora pochissimi i professionisti del fundraising in grado di attivare, consigliare, strutturare campagne e strategie di raccolta fondi utili. È questo in qualsiasi ambito del terzo settore».
Quando abbiamo fondato Slow News, che è la mia startup giornalistica, ci è stato praticamente sconsigliato di fare un no profit, così abbiamo creato una STP SRL, perché ci siamo un po’ spaventati da tutte le possibilità negative che ci hanno raccontato. Pensi che in Italia ci sia un limite culturale alla diffusione di questo modello?
«Possibile. Ma non solo. Credo vi sia anche una carenza di competenze dedicate al terzo settore. Se sono in pochi ad occuparsi di fundraising, sono ancora di meno coloro i quali (tra consulenti fiscali e commercialisti) ad aver nutrito interesse per il terzo settore. E quando non si conosce una opportunità, non la si coglie».
Pensi che in Italia ci sia un limite legale alla diffusione di questo modello?
«Se il modello cui ti riferisci è una testata il cui ente gestore sia un ente del terzo settore, non vedo ostacoli. L’ente potrà poi attivare ogni più opportuna strategia di fundraising per rispondere alle esigenze della testata.
Voi giornalisti avete una grande responsabilità: raccontare i fatti, consentire ai cittadini di accedere ad informazioni che siano vere (ecco perché continuo a leggere di ciò che mi interessa sui giornali e non trovo affidabili commenti sui social che non possono sostituire il lavoro di una redazione).
Per garantire una corretta informazione e perché i tutti possano accedervi non potrebbe risultare necessario scuotere l’opinione pubblica su questo tema e dare, perché no, anche al singolo cittadino la possibilità di sostenere un giornale? Magari con una donazione?
Donare è una scelta.
Un donatore sceglie se donare, quanto donare e quale mission sostenere.
Perché non potrebbe essere di interesse per un donatore dare la possibilità ad un giornale di proseguire il suo operato con maggiori risorse? Che possono corrispondere a maggiori e più trasparenti informazioni?»
Qual è lo stato dell’arte del terzo settore in Italia? Cosa è cambiato, cosa sta cambiando? «È stata recentemente varata la riforma del Terzo Settore. Sta andando a regime in questi mesi. Professionisti molto bravi non la ritengono perfetta ma tutti le riconosco un grande merito che è quello di aver messo ordine nella normativa sul terzo settore, fino ad oggi molto frammentata. Una riforma per tutto il territorio nazionale che mette da parte, una buona volta, le differenti leggi regionali.
È del 1997 la legge sulle Onlus che ha reso deducibile fiscalmente le donazioni. Prima di questa data vi sono stati certamente virtuosi esempi di fundraising ma è questa esperienza del 1997 a far sì che il non profit entrasse nello studio delle materie economiche.
La riforma del Terzo Settore arriva dopo 20 anni. In un Paese in cui parlare di Terzo Settore significa anche parlare di quasi 700.000 posti di lavoro e di più di 6 milioni di volontari. Centinaia di migliaia di organizzazioni che si occupano di sanità, di istruzione, di cultura, migliorando le comunità in cui operano ed incidendo positivamente sulla vita delle persone. I fundraiser che operano per queste organizzazioni promuovono la cultura del dono che viene quindi restituito alla comunità con la realizzazione della mission che l’ente si prefigge di rendere concreta».
Secondo la tua esperienza, quali sono gli elementi più importanti di cui tenere conto quando si fa fundraising?
«L’azione di chi fa fundraising non può prescindere dall’essere sempre trasparente… e quindi raccontata. Ecco perché gioca un ruolo fondamentale anche la comunicazione sociale. Questo consente di fidelizzare il donatore sia esso un privato o un’azienda. Poi ogni fundraiser ha le sue “modalità di azione”. Personalmente so che “non funzionerei” se non condividessi la mission dell’ente per cui opero. Fortunatamente non mi è mai capitato.
Ed il cuore fa la differenza. Sempre. Prima per il fundraiser e poi per il donatore».