Narrazione o azioni reali? Questo è il dilemma.
Nel numero 69, con la lungimiranza che non è data dall’essere particolarmente brillanti ma che, invece, deriva da un confronto continuo, collettivo, con gli abbonati di Wolf e fra di noi, scrivevo un pezzetto, ormai obsoleto, dal titolo 2018: Fuga dalle OTT. La precisazione sulla lungimiranza è importante, perché se non fossimo costretti a metterci in gioco quotidianamente per raccogliere la sfida di Wolf è probabile che certe cose ce le terremmo per noi. O forse non le rumineremmo a dovere.
Le ragioni di una profonda riflessione sulla necessità di un’exit strategy erano, a mio avviso, abbastanza ovvie. E lo sono ancora adesso, con tutta una serie di avvertenze.
La massa delle condivisioni e dei contenuti prodotti e aggregati sulle piattaforme compete sempre di più, affollando i news feed e la capacità d’attenzione e di elaborazione delle informazioni.
Le piattaforme OTT sono pressoché indispensabili per iniziare e sostenere qualsiasi progetto che abbia bisogno anche di un supporto su quella propaggine del reale che è il digitale: non avrebbe senso suggerire, oggi, di fare a meno di Google o di Facebook.
Quel che aveva ed ha senso ancora adesso è pianificare un’uscita graduale. Perché? Semplice:
- le piattaforme non dureranno in eterno
- le piattaforme cambiano a piacimento le loro regole
- per gestire accuratamente i propri clienti / lettori / abbonati occorre offrire loro un’esperienza completa, che vada al di là della piattaforma su cui giacciono i contenuti
Questa semplice serie di riflessioni non significa, però, che sia semplice per tutti pianificare un’exit strategy che ci renda sempre meno dipendenti dal «traffico» che Google e Facebook (su tutti) portano ai nostri siti. E non significa nemmeno che possiamo ignorare i posti dove si trovano i nostri effettivi o potenziali clienti / lettori / abbonati.
Soprattutto, non è facile se nel tempo a queste piattaforme ti sei legato mani e piedi.
Così, ecco che un pezzo apparso ieri sul New York Times in cui si annuncia che l’alleanza di giornali vuole trattare collettivamente con Google e Facebook merita un’attenta analisi e merita anche una serie di considerazioni importanti.
L’alleanza, possiamo dirlo senza timore d’essere smentiti, osserva la realtà esclusivamente da un punto di vista: quello giornalistico. L’osservazione non è di merito ma di sostanza.
Nonostante questo punto di vista parziale, alcune premesse sono comunque condivisibili in senso assoluto. Come, ad esempio, il predominio di Google e Facebook nel digital advertising. Un predominio duopolistico che fa parte integrante dell’oligopolio della scoperta.
Nella nuova accezione del monopolio, è importante ricordare che oggi i grandi oligopolisti (digitali) non esercitano il loro monopolio su un bene o una merce. Lo esercitano, piuttosto, sulla visibilità che viene offerta a beni e merci.
Ecco perché Google e Facebook concentrano su di sé i proventi della pubblicità digitale. Lo fanno perché «controllano la distribuzione. Così», continua il pezzo sul NYT, «i giornali che un tempo distribuivano il loro giornalismo con i loro camion hanno dovuto appoggiarsi su queste grandi piattaforme online, per poter portare i loro pezzi alle persone, combattendo per la loro attenzione contro siti di fake news e video di gattini».
«E nonostante tutti gli sforzi di Google e Facebook per sostenere il giornalismo, aiutando le organizzazioni giornalistiche a trovare fonti di ricavo – e sopravvivere nel nuovo mondo che questi siti hanno contribuito a creare – alla fine sono sempre i sovrani. E coloro che offrono giornalismo di qualità sono questuanti e servi»:
In questo scenario – un po’ vittimista, a dire il vero – ci sono tutti gli errori che si sono compiuti nel tempo, affidandosi esclusivamente alle competenze tecniche e ossessionandosi con la necessità di raggiungere tutti velocemente.
Adesso guardiamo la medesima realtà dal punto di vista di un’azienda. Che cosa interessa a un’azienda che abbia deciso di investire in comunicazione (parliamo, ovviamente, di scenari virtuosi. Non di scenari in cui budget per la comunicazione vengono affidati a web agency che ti portano like farlocchi su una pagina Facebook o a manager il cui unico intento è quello di accrescere la propria rete di conoscenze per riposizionarsi sul mercato e passare alla prossima azienda)? Interessa essere in grado di definire obiettivi, strategie e di mettere a punto una strategia di comunicazione che porti risultati concreti, che siano possibilmente in larga parte anche misurabili e che comunque consentano di assistere a un progressivo miglioramento delle condizioni di un’azienda. In termini di circolazione del marchio o – meglio ancora – in termini di fatturato e di utile. Evviva.
Perché mai un’azienda con questo desiderio dovrebbe rivolgersi – per esempio – a un giornale per una campagna di pubblicità display? Perché mai un’azienda dovrebbe pagare per un banner? Perché non dovrebbe, invece, farsi una propria strategia di comunicazione sulla piattaforma più gradita ai propri clienti?
E che cosa potrebbero fare i grandi giornali, se proprio vogliono essere dipendenti dalle aziende? È molto semplice. Potrebbero mettere a disposizione dei loro clienti inserzionisti dei gruppi di lavoro che colleghino tutte le competenze editoriali, di content marketing, di pianificazione di una campagna e di erogazione della medesima, come unità corollarie del lavoro giornalistico. È un altro mestiere, rispetto al giornalismo? Sì, lo è in parte. Ma è l’unico modo per continuare a fare pubblicità sui giornali. Pubblicità contestuale, nativa, concreta.
È un altro mestiere, ma non è forse un altro mestiere anche ospitare inserzionisti? Per capirci, qui crediamo, senza timore d’essere smentiti, che la vera indipendenza editoriale si collochi in via esclusiva e non negoziabile nel pagamento che arriva direttamente dai lettori, tutti uguali e tutti desiderosi di essere serviti in maniera qualitativamente alta.
Nel momento in cui tu accetti qualsiasi tipo di inserzione su un qualsiasi prodotto editoriale, accetti in qualche modo le regole di chi ha pagato (persino con un programma di affiliazione accade. Certo: tu puoi parlare male di un libro e poi mettere il banner per acquistare quel libro su Amazon. Ma ragiona un secondo: chi mai lo acquisterebbe? Qualcuno che ti odia? E allora perché ti leggerebbe, qualcuno che ti odia? Ecco. Ci siamo capiti).
Insomma, la sostanza è che questa settimana gli editori americani – capeggiati dal New York Times – chiederanno all’antitrust di poter negoziare tutti insieme con le grandi compagnie come Google e Facebook.
La mossa è di quelle che ti lascia per un po’ a riflettere ed è per questo che ci ho dormito su e questa mattina mi sono preso tutto il tempo di un viaggio per pensarci bene.
The Alliance – così si chiama il gruppo di giornali americani che sta per chiedere il diritto al Congresso di fare questa contrattazione collettiva – tiene insieme tante realtà diverse. Dal NYT al Washington Post al Wall Street Journal a svariate testate locali.
La mossa è davvero suggestiva. Ma lascia aperti una serie di interrogativi:
- trattare per ottenere cosa?
- trattare con chi?
- trattare in favore di chi?
Se i giornali sono davvero interessati ai loro lettori non dovrebbero curarsi troppo dei click che arrivano loro da Facebook o da Google e dovrebbero, invece, pensare ai loro lettori. A servirli meglio possibile.
Secondo Jessica Lessin – che si preoccupa del modello di business sostenibile sulla base del pagamento delle persone – si tratta di una mossa di pierraggio, per mostrare Facebook come un monopolio. E potrebbe anche funzionare.
Ma per il resto, davvero non se ne vede l’utilità e nemmeno il senso.
Aggiungo alle osservazioni di Lessin (che, lo ricordo per dovere di cronaca, è stata già criticata perché il marito, autore di una bella rubrica su The Information, ha lavorato per Facebook e sarebbe grande amico di Zuckerberg. Il che avrebbe messo in dubbio l’indipendenza della testata. Al momento non mi sembra di aver rilevato percorsi in tal senso, ma mi riservo di correggere il tiro qualora fosse necessariio). Sembra una battaglia di retroguardia, nella quale i giornali ammettono, sostanzialmente, la loro irrilevanza e non ammettono di essersi sempre rivolti, piaccia o meno, a una nicchia di persone, per quanto popolosa.
Fra i commenti che si leggono sul sito del NYT ce ne sono alcuni davvero interessanti. Questo di Jeff dalla California, per esempio:
«I principali siti di news e gli editori hanno regalato i loro contenuti su piattaforme come Facebook, Snap, Google e via dicendo e ora si chiedono perché non hanno un pubblico.
C’è un duopolio perché questo gruppo del vecchio mondo ha lasciato che accadesse. Non hanno incentivato i loro dipendenti a innovare, crescere, imparare. espandere le loro visioni. Si sono seduti su quel che avevano nel 1980 e non hanno fatto alcuno sforzo (o investimento) per coinvolgere le persone sul digitale, seguendo i comportamenti e i trend contemporanei. Una contrattazione collettiva non aiuterà. Peggiorerà le cose».
Sono molto d’accordo, purtroppo. E continuo a sostenere che la strada sarebbe quella delle exit strategy che sfrutta, finché possibile, la convenienza specifica delle OTT.
Immagino persone con competenze editoriali al servizio del buon giornalismo e contemporaneamente, se occorre, in grado di offrire consulenze in maniera indipendente a aziende che dovessero averne bisogno, in grado di avere delle leve di introito con unità specifiche dedicate all’advertising, se proprio necessario, e con una politica chiara e trasparente nei confronti dei lettori. Immagino team editoriali che invece si rivolgono solo a lettori paganti.
Faccio davvero fatica a credere che un’aggregazione di editori che tratta collettivamente con degli oligopolisti della scoperta e del «customer journey» (sì, non abbiamo ancora trovato una traduzione decente) possa fare del bene all’ecosistema.
Sono molto più fiducioso del fatto che un simile afflato possa arrivare da gruppi come quelli di Wolf, senza i quali, per quello che mi riguarda, ragionamenti come questo non troverebbero una collocazione sensata.