Che cosa dovresti fare se ti capitasse di dover seguire da zero la presenza digitale di un’azienda, tua o altrui, personale o di dimensioni più ampie? Da zero significa: nessun sito, nessun social, niente di niente. Tutto lasciato alla tua fantasia. Il budget non è stratosferico ma si può investire qualcosa per fare le cose fatte bene.
È un sogno o un incubo? È il momento ideale oppure è un dramma, visto che viviamo in quella che abbiamo definito l’era del content shock?
L’approccio più sensato a questo tipo di domande è capire, tanto per cominciare, perché l’azienda decide di andare online partendo da zero. Perché è un business nuovo? Perché vuole espandersi? Perché ha sentito dire in giro che così facendo incrementerà sicuramente il fatturato? Per esserci e basta?
Capire questo è fondamentale anche solo per decidere se mettersi a lavorare o meno, dal mio punto di vista. Perché se l’idea di fondo è: andremo online perché così faremo di sicuro un sacco di soldi, allora bisogna piallarla prima di cominciare.
La seconda cosa da fare è riuscire a ragionare come se stessimo parlando di aprire un negozio fisico o di affittare una sede. Qualcosa, insomma, che non ti dia l’idea di una virtualità senza costi ma che, invece, ricordi a tutti gli attori che essere online nel 2019 costa. In termini di strumenti, di gestione, di produzione dei contenuti, di tutto.
La terza cosa da fare è sincerarsi che quando si dice “da zero” sia veramente da zero. Che non ci siano cioè
Individuerei tre fasi fondamentali, prima di mettersi a mettere online di qualsiasi cosa, che sono
– l’analisi dell’azienda
– l’analisi del mercato di riferimento
– la progettazione della presenza digitale
Chiaramente queste fasi sono importanti in qualsiasi approccio conoscitivo con una realtà, non riguardano solamente quelle che iniziano da zero. Ma cambia poco, in definitiva.
Partiamo dall’analisi dell’azienda.
Lo schema che propongo di utilizzare per qualsiasi tipo di struttura è una struttura che è molto nota a chi si occupa di questioni giornalistiche. Rispondere, cioè, alle 5 domande classiche, le cinque w, con un paio di aggiunte.
Who (chi)?
What (che cosa)?
Where (dove)?
When (quando)?
Why (perché)?
To Whom (a chi)?
How (come)?
Questa schematizzazione non è soltanto un retaggio giornalistico. Dopo varie sperimentazioni sul campo, posso dire che è davvero il modo più semplice ed onnicomprensivo di schematizzare senza dimenticare nulla.
Who?
È il “chi”. Chi lavora in azienda. Chi fa le cose. Chi fa cosa. Devi saperlo non tanto perché poi farai una pagina dedicata allo staff (anche se metterci la faccia può essere spesso una buona idea) sul tuo sito, quanto perché ti da un quadro chiaro delle persone che lavorano e con cui dovrai lavorare, che magari dovrai raccontare. Quali sono i reparti dell’azienda, chi sono i fondatori, chi ha un ruolo relazionale, chi si occupa del customer care: bisogna dare volti a ruoli e ruoli a volti e saperli descrivere nel modo più efficace possibile.
Sicuramente tutte queste persone hanno pezzi della loro esperienza lavorativa che si devono integrare coerentemente con la presenza digitale.
Uno dei problemi più diffusi nella progettazione digitale, nella trasformazione, è il fatto che la facilità di gestione tecnica di determinati processi fa sì che si tenda a pensare che tutti possano fare tutto e che si rinunci alle specializzazioni. Di solito è il primo passo verso l’abisso del peggiore degli equivoci: l’essere mitologico a cui affidare l’internet. Sappiamo che quell’essere non esiste e che le competenze vanno divise, anche se è bene che la cultura aziendale contribuisca alla diffusione delle medesime per facilitare una reciproca comprensione quasi empatica.
What?
È il “che cosa”. Che cosa fa quest’azienda? Di cosa si occupa? Qual è la sua missione? Che cosa vende? Cosa propone? Servizi? Prodotti? Entrambe le cose?
Potrebbe capitare che, progettando la presenza digitale, ci si renda conto di disfunzionalità organizzative nella realtà fenomenica (per esempio, database clienti pessimi o altre amenità del genere). Questo è il momento in cui le dichiarazioni d’intenti dell’azienda devono essere passate al vaglio con il setaccio della realtà a fare da filtro.
Il “che cosa” dev’essere coerente con le dichiarazioni d’intenti. Il brand non è quella cosa che decidi tu. È il modo in cui gli altri ti percepiscono.
Where?
Dove opera l’azienda? In quali ambiti, in quali ecosistemi? Ha una presenza fisica? Ne ha una digitale? Come occupa questi spazi, come li presidia?
When?
Quando si sviluppa l’azione, la vendita, la proposta? È una proposta stagionale? È continuativa nel tempo? Ci sono dei momenti in cui ha più senso che ci si concentri, per esempio, sulla comunicazione? Altri in cui si devono fare delle offerte specifiche? Quando si deve raggiungere il pubblico con un nuovo contenuto?
Why?
Quali sono gli obiettivi? Non il fatturato. Lo sappiamo che quello è l’obiettivo primario.
To Whom?
A chi si rivolge questa azienda? Quali sono le “personas” che ha, che vorrebbe come clienti? Quali sono i loro bisogni e le loro paure? Quali i loro desideri? Di cosa si occupano? Che cosa fanno? Quali gusti hanno, che ambienti frequentano? Come si interfaccia l’azienda con loro, come gestisce il “customer care”, come fa a farli sentire parte di qualcosa?
Su HBR, qualche giorno fa, è uscito un pezzo molto interessante a proposito del digitale. Si intitola Digital Doesn’t Have to Be Disruptive e puoi immaginare di cosa parli fin dal titolo. Del pezzo mi piace, in particolare, questa parte.
Myth: Digital is about technology. Reality: It’s about the customer.
Managers often think that digital transformation is primarily about technology change. Of course technology change is involved—but smart companies realize that transformation is ultimately about better serving customer needs, whether through more-effective operations, mass customization, or new offers. Because digital enables—even demands—the connection of formerly siloed activities for this purpose, the company must often reorganize both people and technology.
cioè
Mito: il digitale riguarda la tecnologia. Realtà: il digitale riguarda il cliente.
Spesso i manager pensano che la trasformazione digitale sia dovuta prevalentemente a modifiche tecnologiche. Certo, la tecnologia è coinvolta. Ma le società più intelligenti capiscono che la trasformazione, in definitiva, ha a che fare con il servire meglio i bisogni dei clienti, sia attraverso operazioni più efficaci, personalizzazioni di massa o nuove offerte. Dal momento che le esigenze digitali, anche le richieste, la connessione di attività precedentemente silenziate a questo scopo, l’azienda deve spesso riorganizzare sia le persone che la tecnologia.
È il solito cambio di prospettiva che però non possiamo dare per introiettati finché non lo vedremo applicato con i nostri occhi: se persino l’Harward Business Review sente il bisogno di dedicare un intero saggio alla questione, vuol dire che siamo ancora molto lontani da questa consapevolezza.
How?
Come metteremo in pratica la missione dell’azienda? Come serviremo al meglio i clienti, il pubblico? Come organizzeremo il lavoro? Come comunicheremo? Come utilizzeremo la tecnologia per i nostri scopi?
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Rispondere a queste domande può sembrare banale o troppo complicato, a seconda delle dimensioni dell’azienda, a seconda di quello che si fa. Naturalmente vale anche per le attività di un singolo, di un freelance.
Non c’è molto altro da fare prima di partire, non c’è modo di partire bene se non si sono chiariti a monte tutti questi elementi.
La cosa bella è che tutto questo vale anche se sei già online da tempo: non è mai troppo tardi per ricominciare a fare bene le cose.
(AP)