Ci sono state molte reazioni a proposito del «tema del momento» fra molte persone che si occupano, a vario titolo, di digitale e di comunicazione (per tacer del giornalismo). Naturalmente mi riferisco al cambio di algoritmo di Facebook. Per la precisione, al doppio annuncio dell’11 e del 18 di gennaio con cui Zuckerberg sul suo profilo e Adam Moseri sul newsroom.facebook.com hanno spiegato le novità per la creazione del news feed – cioè, quell’oggetto personalizzato che trovi tutte le volte che apri Facebook. La cosa più simile al Daily Me di Negroponte. Probabilmente uno dei prodotti «editoriali» più riusciti di sempre – dal punto di vista di chi lo usa come fruitore – e una delle piattaforme più potenti di sempre per chi lo usa professionalmente.
Ho letto pezzi apocalittici, altri integrati. Raramente ho trovato «terze vie» o simili. Eppure ci sono e si trovano scremando fra le reazioni isteriche di marketer e giornalisti.
Fra questi ultimi, quando Zuckerberg ha scritto che verranno premiate le notizie delle fonti ritenute autorevoli dalle persone, si è scatenato una specie di panico incomprensibile e irrazionale che non si capisce bene dove vorrebbe andare a parare. Il giornalismo, per essere autorevole, ha forse bisogno che gli sia riconosciuta l’auctoritas a prescindere da quel che fa?
Facebook, sia chiaro, non è mai stato raccontato come una piattaforma al servizio dei giornali giornali – anche se ha provato ad andarci a braccetto, con la complicità a volte cieca di questi ultimi. In Facebook hanno sempre dichiarato di voler creare una piattaforma per connettere le persone fra di loro e poi per connettere aziende e persone.
Soprattutto, Facebook, per quanto sia stato utilizzato come una fabbrica di click, semplicemente non lo è (perché non è questa la sua convenienza specifica).
Comunque, una delle reazioni che mi ha divertito di più è stata quella di Enrico Marchetto, che su Facebook ci lavora e che è uscito decisamente fuori dal coro (qui e qui).
Ora. Siccome penso che dalle persone brave che prendono le cose con la giusta leggerezza ci sia sempre da imparare, ho chiamato Enrico per parlare del tema (la verità è che da tempo vorrei che scrivesse per Wolf, ma come molte persone brave che lavorano col digitale, è tanto impegnato).
«Sono proprio contento che tu mi abbia chiamato per questa cosa», mi dice all’inizio della nostra chiacchierata. E io gli dico che, viste le sue foto, non potevo fare altrimenti.
Perché hai pubblicato quelle foto?
Guarda, voglio citare un’altra brava collega che si occupa di Facebook, Valentina Vellucci [Enrico non lo sa, ma la collega è già citata nel pezzo dal titolo Algoritmageddon, ndA].
A ogni cambio di algoritmo di Google, per i SEO è una sfida clamorosa. I SEO sono in fermento, perché è una nuova sfida. Cambia l’algoritmo di Facebook e tutti ti dicono che dramma, che disastro. Io, sinceramente, non mi preoccupo minimamente, sarà l’ennesima nuova sfida che ci troveremo a sostenere. Se ci saranno davvero dei cambiamenti, studieremo nuove strategie.
Personalmente affronto la cosa in totale serenità.
Ma allora perché ci sono tutte queste reazioni isteriche?
A me sembra che su Facebook si tenda a dimenticare la fase analitica.. È come se si volesse sempre solo trovare il pulsante per far saltar la scimmietta.
C’è una riflessione macroscopica a monte da fare, che è legata alle parole di Zuckerberg.
Il lurking mont di Facebook, cioè la fruizione passiva del News Feed, è effettivamente un qualcosa che sta prendendo una piega preoccupante. L’utilizzo maggiore del News Feed è proprio il lurking, cioè, si scrolla il Feed senza lasciar traccia del proprio passaggio. Quindi il fatto di favorire la presenza di contenuti con cui siamo portati a interagire è una mossa ovvia: i tassi di ingaggio con i contenuti sono crollati, quando otteniamo un engagement rate dell’1% siamo felici.
E questo non è «colpa di Facebook», vero?
Ma no. È colpa di un sacco di fattori. È colpa di fattori demografici? È colpa del fatto che i 18-24 progressivamente abbandonano la piattaforma. Che gli anziani ingaggiano in territori a loro consoni (come i gruppi, la messaggistica privata e via dicendo).
Allora cosa sta facendo Zuckerberg?
Zuckerberg vuole semplicemente rendere più visibili nel News Feed le conversazioni tra esseri umani, vuole favorire la generazione di ingaggio, il commento, il commento al commento. È nella natura di Facebook, è un processo che è già in atto. Ed è in atto non solo su Facebook. È quello che Bryan Kramer chiama «Human to Human» [There is no B2B or B2C: it’s Human to Human, Bryan Kramer].
Quindi in definitiva ci si deve preoccupare di produrre contenuti di qualità?
Allora. Il 70% dell’uso di Facebook è entertainment. Ci passiamo su 26 ore al mese. È una piattaforma relazionale: non possiamo fare i conti con Facebook senza pensare prima di tutto a questo. L’operatore di marketing è lì che si scervella per far saltare la scimmietta. È un approccio completamente sbagliato, soprattutto alla luce di questo ritorno alle origini di Facebook.
Ecco. Ed è proprio qui che volevo arrivare: è un ritorno alle origini che non può essere ritenuto sorprendente, tu che dici? Io tengo traccia da un paio d’anni delle modifiche dell’algoritmo di Facebook e nel farlo ci vedo un percorso per nulla sorprendente.
È così: non sorprende affatto.
I gruppi hanno ricevuto un potenziamento nel Feed? È abbastanza logico che accada. Ma era già così: se tu partecipi alla conversazione su gruppi ad alto tasso di interazione ti occupano l’intero news feed.
Questo avviene perché il gruppo ha una dinamica orizzontale: quando posti sul gruppo, tu hai la stessa seniority di un admin. L’effetto orizzontale genera un incentivo all’interazione.
Un pezzo molto bello è quello di Jon Loomer, che fa il punto sulle varie strette, al click bait ma anche al comment bait o al tag bait. Tutti i trucchetti, tipo: se ti piace questo metti like, se ti piace quello metti il cuoricino, andranno a morire!
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INTERMEZZO
Il pezzo di Loomer in cui c’è l’annuncio e una prima analisi del cambiamento è qui.
Poi c’è quello in cui Loomer propone azioni da intraprendere invece di piangersi addosso.
Da quando ci siamo sentiti con Enrico è arrivato il secondo aggiornamento di Facebook, quello che ha generato le reazioni scomposte fra i giornalisti – avremo modo di parlarne in seguito, nei prossimi giorni – e Jon Loomer ha scritto un altro pezzo che per me è semplicemente fondamentale. È questo.
Loomer non biasima Facebook. Biasima chi lo usa. Chi cerca le scorciatoie, i trucchi. Per citare Mafe de Baggis in una conversazione che non ritrovo: «Se pratichi una scorciatoia, prima la useranno tutti e poi te la toglieranno».
Loomer dà la colpa ai marketer! Sono loro che rovineranno tutto, dice. Ma quali marketer? No, non quelli che cercano strategie per favorire i contatti human to human. Quelli che cercano di far saltare la scimmietta, come dice Enrico.
E, cosa che mi dà un’enorme soddisfazione, Loomer propone l’elenco degli ultimi cambiamenti dell’algoritmo dal 2014 a oggi per dimostrare che era tutto prevedibile e che, semplicemente, Facebook cerca di mantenere quanto più pulita possibile l’esperienza utente su di sé:
21 gennaio 2014: più contenuti dagli amici
10 aprile 2014: pulizia dallo spam
27 maggio 2014: maggior controllo sulle condivisioni dalle app
25 agosto 2014: basta con il click-bait
14 novembre 2014: basta con l’eccesso di contenuti promozionali
20 gennaio 2015: basta bufale
4 agosto 2016: davvero, basta con il click-bait
15 dicembre 2016: «no» voleva dire no alle fake news e alle bufale
10 maggio 2017: i tuoi link hanno rotto
17 maggio 2017: ultimo avviso sul click-bait
9 agosto 2017: basta spazzatura
17 agosto 2017: adesso il click-bait sta rovinando i video
18 dicembre 2017: basta con l’engagement-bait
Ti consiglio lettura integrale del pezzo. Ma il senso è: se cerchi le scorciatoie e i trucchi, anche tu stai rovinando tutto e stai contribuendo al prossimo cambio di algoritmo di cui ti lamenterai.
FINE DELL’INTERMEZZO
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Ecco. Sarà che io sono abituato da tempo a considerare questo tipo di operazioni dal punto di vita SEO e a me like o cuoricino e altre amenità del genere son sempre sembrate tecniche paragonabili al keyword stuffing o alla compravendita di link. E quindi, per me, se muoiono è un’ottima notizia.
Ma certo che sono la stessa cosa e certo che è un’ottima notizia! Come operatori del settore, dobbiamo puntare alla massima ecologia della piattaforma sociale. Il linkbuilding ha senso solo se è un linkbuilding di qualità. È la stessa cosa con le interazioni.
Ma tu pensi che si dovrà aumentare il budget dedicato alla promozione dei contenuti su Facebook?
Guarda, se si aumenta non si aumenta certo per questo cambio algoritmo.
La reach organica è un concetto che è diventato terribile per quanto è ristretta. Ma anche qui, non è «colpa di Facebook». È che aumentano i concorrenti. Ti faccio un esempio. Io vengo da un paese di 6000 anime. Ci saranno almeno 300 pagine che lavorano sullo stesso territorio.
L’attenzione delle persone è un elemento finito. Le 300 pagine lavorano sullo stesso segmento di attenzione. Per forza si riduce la reach organica. Quindi l’investimento pubblicitario è proporzionale ai segmenti di attenzione rimasti.
In realtà, poi, l’aumento del budget non serve a niente se continui a sbagliare, se non studi, se sbagli l’interpretazione della domanda latente, se sbagli il posizionamento, se sbagli la piattaforma. Bisogna aumentare la corrispondenza tra il contenuto che si propone e la delivery, la consegna di quel contenuto.
A proposito di sbagliare, hai linkato un pezzo bellissimo, I 29 errori errori che si commettono nell’advertising su Facebook.
Già, e non è un caso che siano addirittura 29. Il fatto è che il marketing si deve preoccupare del controllo delle variabili.
Ma tu cambi strategia in funzione del cambio di algoritmo?
Non ti voglio dare una risposta retorica, ma io non lavoro mai il giorno dopo come lavoravo il giorno prima.
Ogni giorno cambio nella comprensione dello studio dell’algoritmo. Studio le persone.
Se l’algoritmo privilegia i video, so che succede perché Facebook lavora in termini di ascolto delle persone.
I miglioramenti che fa Facebook richiedono un lavoro di perfezionamento che fai tra il tuo messaggio e il target.
E come si fa a trovare contenuti che parlino di questo scappando da quelli che fanno le analisi da un giorno all’altro?
Ma ci sta che ci siano anche posizioni diverse, è il bello del social, ognuno esprime la propria visione.
Certo, io fra le mie letture, evito i pezzi apocalittici. Ho letto cose interessanti lato filosofico, tipo «Fixare Facebook prima che Facebook fixi noi». Mi interessa studiare l’uso di Facebook per scopi politici, con un target lettore che deve consumare immediatamente. Con tutto quello che ne consegue: fake news, populismo, allarmismo, lavoro su ottiche di breve periodo. Mi interessano letture di natura socio-antropologica.
Seguirò anch’io queste letture, mi hai incuriosito. Ma tornando al tema principale della nostra chiacchierata, allora continua a vincere contenuto e relazionalità con le persone?
Sì. Ma ci sono anche degli elementi fondamentali di delivery. Cioè, come consegni il contenuto, quando lo consegni. Il momento giusto. Il contenuto su misura. Il contenuto con il formato giusto, nel posto giusto.
Se tu raggiungi il 70% del tuo pubblico su mobile ti devi domandare: «Dov’è il mio pubblico? Che cosa sta facendo?
Insomma, non è solo il rapporto tra contenuto e la relazione, ma anche la spedizione.
La delivery è contenuto essa stessa.
Si può fare bene anche senza organico, senza una produzione di contenuti editoriali?
Ma certo, dipende dal prodotto. Pensa agli zainetti antitaccheggio: Facebook è un canale di conversione perfetto per quel prodotto. O lo spremiagrumi. O le barrette energetiche. Puoi vendere anche a freddo, puoi anche non fare una storytelling troppo evoluta. Ma ci sarà sempre il video di come funziona lo zaino antitaccheggio (ed è storytelling anche quello).
Infine, la domanda delle domande. Quella che, in caso di risposta positiva, esaudirebbe i sogni di tutti noi. Esiste una strategia valida per tutti?
No. Non esiste il format. Esiste la scalabilità all’interno dello stesso cliente ma non la scalabilità fra clienti.
Non esiste un format di advertising che funzioni per tutti. Nemmeno su clienti che operano nello stesso settore.