Che si dice in rete?

Molto spesso l’inizio di un progetto di comunicazione assomiglia a una di quelle rotonde talmente grandi e con talmente tante uscite che finisci per farle un paio di volte perché perdi il senso dell’orientamento. Giri in tondo, perché ogni volta ti manca qualcosa: il budget, i contenuti, i processi, l’analisi, la creatività, la convinzione, a volte addirittura l’offerta. Io, nel dubbio, parto sempre dal passaggio più difficile: la definizione dell’audience.

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La prima domanda che faccio ai miei clienti è: a chi volete parlare?

Sia che decidiamo di lavorare sulla domanda esplicita (visite al sito, ricerche su Google, mail o messaggi di richiesta di informazioni) che sulla domanda latente (social media, adv, relazioni pubbliche) ci scontriamo sempre con lo stesso problema: parliamo del prodotto a una persona media che potrebbe apprezzarlo o parliamo del mondo del prodotto a una persona specifica che potrebbe parlarne e consigliarlo?

La prima risposta che do ai miei clienti è: in un mondo digitale funziona meglio fare un giro largo, non dare per scontato che il customer journey inizi parlando ai customer. Fai appassionare pochi perché siano loro a parlare a molti. Se poi se così bravo da appassionare molti, chapeau.

Salvo casi di prodotti molto attesi e desiderati, quelli che basta far sapere che ci sono che uno li compra (che ne so, una lavatrice che appaia i calzini, una protezione solare in pastiglie, il teletrasporto) io scelgo sempre di raccontare cose interessanti a persone interessanti, lasciando a loro il compito di farle girare. Questo vale sia in organico (se no il contenuto non arriva) sia in pubblicità (se no i costi salgono e le campagne fanno fatica a girare), per un motivo molto semplice: siamo perfettamente in grado di progettare dei contenuti interessanti per un’audience particolare, mentre parlare in modo generico a milioni di persone come si faceva prima funziona sempre meno bene.

Come fare a evitare che anche la definizione dell’audience diventi una rotonda che assomiglia a una giostra impazzita? Io parto da tre cose, in ordine di disponibilità:

  • il prodotto (il suo mercato, il suo posizionamento, ma anche il significato nella vita dei clienti)
  • l’obiettivo (che dev’essere sempre legato al business, non alla comunicazione)
  • i dati storici (vendite, clienti registrati, visite al sito, recensioni/punteggi)

In base a queste tre cose scelgo un ambito di riferimento, cercando il più possibile di lavorare sul social object. Se il prodotto è una pentola a pressione e l’obiettivo è venderla online, senza dati a disposizione, l’ambito di riferimento è la cucina, non la cottura.

Come facciamo a definire l’audience se non abbiamo dati? È semplice: guardiamo che si dice in rete e, a seconda del tempo e delle risorse che abbiamo, lo facciamo in modo sistematico (cioè organizzato per essere presentato a terzi, seguendo un metodo preciso) o casuale (raccogliendo informazioni che servono a noi per generare idee).

Non fare l’errore di pensare che un’analisi casuale delle conversazioni sia per forza peggiore di un’analisi sistematica, per due motivi.

Il primo è che a noi interessa raccogliere spunti, idee, punti di vista, modi di dire, domande frequenti, lamentele per farci un’idea del tipo di persona a cui rivolgerci e dei contenuti che possono interessarla. Non stiamo facendo un’analisi sociologica o quantitativa o del sentiment, il nostro obiettivo non è mappare tutti i punti di vista, tutte le domande frequenti, tutte le lamentele. Anche perché questo ormai è impossibile, ed eccoci al secondo motivo: a differenza della rete di prima il dark social, cioè la parte di conversazioni a noi inaccessibile, è cresciuta tantissimo. Non avremo mai (più) modo di analizzare tutte le conversazioni su un dato tema, perché queste conversazioni sono in gran parte private.

Quello che a noi serve è, visto che non siamo il nostro cliente, è avere una mappa dei suoi comportamenti. Non una carta, una mappa dove segnare quello che interessa a noi, non l’intero territorio.

Per fare questa mappa possiamo anche partire da quelli che Alice Avallone, in “People watching in rete”, definisce Isole Minori (i forum di TripAdvisor, le recensioni di Amazon) o Isolotti (siti o blog aziendali, di autori, di influencer).

Ci comportiamo cioè come un vero etnografo (seppur digitale): per scoprire e descrivere i comportamenti di un gruppo di persone non è necessario analizzare tutti i partecipanti, ma è più che sufficiente un campione neanche rappresentativo.

A differenza degli etnografi, poi, spesso dobbiamo notare più quello che manca di quello che c’è, come insegna a fare Alberto Puliafito con le SERP (nel quaderno SEO di Wolf trovi un po’ di indicazioni in merito). Quali domande non hanno mai risposta? Quali temi non hanno un vero approfondimento? Quali problemi sembrano non avere una soluzione nota?

L’uscita dalla nostra rotonda parte da qui, perché è qui che si nascondono le idee migliori. È già tutto in rete, basta avere la pazienza, l’umiltà e l’intelligenza di ascoltare e, quando si è meglio definito il quadro, di chiedere.

(MdB)