Il bello della diretta e del cinema muto

Se c’è una cosa su cui Facebook mostra tutto il suo impatto è la generazione di hype e entusiasmo per cose che ci sono da oltre un secolo, per il solo fatto di averle rese alla portata di tutti. Il futuro della comunicazione audiovisiva, se dovessimo attenerci a quel che si legge, passerebbe attraverso la diretta e i video con i sottotitoli. Se fosse così allora significa che c’è qualcosa che sfugge agli entusiasti dell’ultim’ora.

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Ovvero, per mantenere la prospettiva, la visione d’insieme, la lucidità per individuare le buone pratiche che sono uguali nel tempo e che, semplicemente, vanno declinate secondo le nuove tecnologie. Ed è quello che non sfugge, per esempio, a Mary Meeker.

Quando nasce la televisione è in diretta. La sua fruizione è lineare. O ti colleghi o ti perdi quel che succede. Si parla di pubblico di massa, non perché sia mai esistito un pubblico unitario con gusti univoci, ma più che altro perché la scelta è estremamente limitata e di conseguenza se si vuole fruire di un contenuto video va a finire che devi per forza collegarti a quel bouquet limitato o esclusivo di broadcaster.

Evoluzione del video secondo Mary Makeer

Quando arriva la registrazione videomagnetica e tutti i relativi corollari, nasce il mercato dell’on demand. Di cui faceva parte, per esempio, Netflix. Fondata nel 1997, nel 1999 introdusse un modello di business basato sulle subscription (!) per il noleggio dell’home video. In altre parole, Netflix era già Netflix quando non era ancora la Netflix di cui magari fruisci anche tu oggi (magari, all’epoca, andavi da Blockbuster).

La fruizione si spacchetta: qualcosa ha senso in diretta. Grandi eventi, eventi sportivi. Ma poi puoi fruirne anche on demand. E a pezzetti. Se vuoi guardarti Sanremo, per dire, puoi vedere anche una sola esibizione. Se non hai visto una partita di calcio in diretta puoi vederti una registrazione o gli highlights.

Il live streaming, nel frattempo, si sviluppa ed è alla portata di molti già da parecchi anni. Con alcuni amici, per dire, nel 2011 facciamo una serie di esperimenti live che chiamiamo Indignathy, utilizzando come piattaforma Livestream. Ci sono anche Ustream, il live streaming di Youtube e via dicendo. Esattamente come Teleblogo, che fu il primo video podcast italiano quotidiano (parliamo del 2006, un’era geologica fa), il problema non è tanto che ci costasse molto fare questo tipo di operazioni. Il problema è che, anche se erano presenti le possibilità tecnologiche a basso costo, non c’era una piattaforma che consentiva di raggiungere «potenzialmente» tutti. Quando facevamo gli streaming di Indignathy avevamo una piccola comunità di spettatori che chattavano con noi. Uno streaming che nel suo picco aveva raggiunto 100 persone contemporaneamente. Teleblogo nei momenti migliori veniva scaricato da 1000 persone al giorno.

Guarda che non sono numeri molto diversi da quelli della maggior parte dei live streaming o dei video podcast di oggi. Solo che, siccome non c’era la mega piattaforma in cui, ad un certo punto, potevi aggregare un po’ di metriche quantitative, allora mancava la magia dell’illusione, l’hype. E quindi non si trovavano le energie economiche per andare avanti.

Poi cosa succede? Succede che l’evoluzione della tecnologia trasforma progressivamente anche una singola persona (o un’azienda non editoriale) in un potenziale – o reale – broadcaster. E nasce il semi-live su strumenti come Snapchat.

Infine, si torna al live, con Periscope (acquisito da Twitter. Secondo alcuni avrebbe ucciso il giornalismo, ma no, sappiamo che non è successo e che non succederà). E soprattutto con Facebook Live, perché Facebook è quel posto online dove c’è un sacco di gente ed è una straordinaria piattaforma di marketing, di relazioni e via dicendo.

Nella sapiente slide di Mary Makeer si evidenzia come questo live sia fruibile anche a posteriori, e dunque occorre sapere che un contenuto in diretta non è più perduto ma avrà una seconda, una terza, potenzialmente infinite vite.

Il fatto è che la diretta è tremendamente eccitante.

È eccitante anche per gli addetti ai lavori, figuriamoci per chi non si occupa di contenuti o per chi non ha mai sperimentato l’ebbrezza di una diretta televisiva, per esempio. Ricordo – se segui queste pagine sai che troverai spesso ricordi personali, perché si parla delle cose che si conoscono – l’adrenalina in quella regia-scantinato di Telegenova dove, nel 2000, si andava in diretta da mezzanotte alle due, tutte le notti.

Il bello della diretta, oggi, non lo trovi solamente nel fatto che l’evento si sta svolgendo qui e ora e che, potenzialmente, potrebbe succedere di tutto. Consiste nelle interazioni, nella possibilità di raggiungere un pubblico che vuole parlare con te, che sa che non troverà, dall’altra parte, un muro impossibile da penetrare. Sa, invece, che c’è qualcuno che potenzialmente può rispondergli, sa che può relazionarsi con te. Andare in diretta da mezzanotte alle due in una televisione locale che veniva trasmessa anche via satellite significava raggiungere un pubblico che in quel momento non trovava altre forme di programmi live.

La componente interessante del fatto che tutti possiamo andare in diretta non sta, dunque, nella cosa in sé. Sta in quel che ci puoi fare prima, durante e dopo.

Gli addetti ai lavori sanno che il live viene premiato dall’algoritmo di Facebook, perché la piattaforma di Zuckerberg ha deciso di puntarci molto. Sappiamo anche che la mappa di tutti i live che ci sono su Facebook ci mostra che anche questo contenuto, come tutti gli altri, soffre del problema di tutto il contesto dei contenuti digitali odierni. Ovvero, il sovraccarico informativo (se preferisci l’inglese, l’overload information). Ci sono streaming interessanti sommersi da streaming di eventi sportivi, film e altro – per tacer dei contenuti che si possono facilmente immaginare – ma la metrica che conta, in questo caso, non dovrebbe essere quella delle visualizzazioni totali, che lascia un po’ il tempo che trova.

Facebook live mappa

Dovrebbe essere, per esempio, quella delle visualizzazioni contemporanee (e della permanenza di queste visualizzazioni). Però ahinoi, sono numeri piccoli. Nello screenshot, la diretta della BBC che ha anche la palla più grossa nel pallogramma della mappa, ha solo 1400 persone collegate contemporaneamente.

Questo dovrebbe suggerirci prudenza. O meglio, dovrebbe suggerirci capacità di relativizzare.

Sappiamo che stare in diretta è fantastico. Che siamo soddisfatti dalle dopamine dell’approvazione istantanea (proprio come il mondo delle notifiche, hai presente?).

Analogamente alla passione per la diretta (che di fatto è un ritorno al passato!), c’è una passione smodata per i video con le scritte che, su Facebook, hanno più engagement degli altri.

Un’interpretazione affrettata di questa tendenza potrebbe farci pensare che il futuro dei contenuti video siano il live e il cinema muto.

In realtà, anche la questione dei video con le scritte è da ricondurre al fatto che la maggior parte dei video su Facebook viene visualizzata in mute. In alcuni casi perché non c’è modo di vederli con il volume alto (tipo al lavoro!), in altri casi perché partono in autoplay. Anche qui, bisognerebbe razionalizzare e capire in quali contesti ci servano i video con le scritte, in quali no.

Il punto è sempre lo stesso, alla fine. Quando ci si appassiona a uno strumento bisogna evitare di avere un approccio fideistico e ricondurre il tutto alle buone pratiche che riguardano la progettazione, la realizzazione e la diffusione dei contenuti. Bisogna saper essere identitari,

Cosa vince su tutto? Semplice. Un piano editoriale. Che consenta di avere una visione d’insieme.

La diretta e i video con le scritte sono tecnicismi di adattamento. Senza contenuti e senza una strategia di comunicazione non valgono niente.

Torniamo a Facebook

In realtà non ce ne siamo mai andati. È lui, è Mark Zuckerberg – insieme ai suoi colleghi, ma essenzialmente lui. È Zuckerberg la star che va dal papa – che ci fa troppo spesso perdere la bussola. Ma, obiettivamente:

  • in questo momento è il «posto digitale» dove è più semplice raggiungere l’altro (a patto di saperlo fare)
  • in questo momento è il «posto digitale» dove è meno costoso fare campagne marketing che convertono in risultati (a patto di affidarsi a chi le sa fare)
  • in questo momento è il «posto digitale» dove si produce più facilmente narrazione sul presente e sul futuro

Le nicchie esistono e non esiste il pubblico.

Ma quel che tutte le persone cercano nella loro nicchia di riferimento è il comportamento più semplice possibile, la via più facile – lo vediamo anche su Wolf, quanti chiedono di poterlo leggere con gli strumenti che preferiscono, quanti trovino scomoda la login e via dicendo.

E i decisori hanno bisogno di vie facili. Ecco perché è troppo spesso facile fregarli con le metriche quantitative e mentire con i numeri. Ed ecco perché Facebook ha fatto qualcosa di straordinario, che nessuna società della Silicon Valley aveva ancora fatto in queste dimensioni. Ed ecco perché Facebook è uno dei volani della rivoluzione digitale, che ad un certo punto si potrà studiare da ricercatori e poi sui banchi di scuola con lo stesso distacco emotivo con cui studiamo e valutiamo le conseguenze economiche e sociali della rivoluzione industriale. Ora siamo troppo coinvolti: se ti dico rivoluzione digitale pensi subito a qualche pirla che fa il consulente in azienda e che si riempie la bocca di brand awareness opportunitysono confident che faremo una campagna viral.

Ma è una rivoluzione in atto, perché sta modificando radicalmente le abitudini di consumo delle persone, i lavori delle medesime, i processi produttivi, i rapporti sociali e soprattutto sta modificando, con il progressivo processo di trasformazione in commodity della produzione e distribuzione dei contenuti e persino dei prodotti, i luoghi in cui si detiene effettivamente il potere economico. Le otto sorelle dell’oligopolio della scoperta sono il frutto più importante di questa rivoluzione digitale (non i live su Facebook).

Certo: Facebook potrebbe ancora fare la fine di MySpace. Ma mentre lo scrivo non ci credo nemmeno io, che possa accadere in quel modo lì. Perché dovrebbe? Come potrebbe, in questo momento? Molti sostengono che la debolezza di Facebook stia nel fatto che non paga per i suoi contenuti. In realtà è la sua forza, almeno finché convince tantissimi (sempre di più) a stare lì. E poco importa se alcuni dati dicono che diminuiscono le condivisioni personali: quello fa parte dell’evoluzione dell’ecosistema. Ecco perché da queste parti ho iniziato presto a scrivere di exit strategy in un pezzo dal titolo Exit strategy: 2018, fuga dalle OTT. Non perché io pensi che si possa trovare una soluzione con il medesimo impatto.  Ma perché penso che sia necessario per ritagliarsi spazi.

Citerò ancora due volte Ben Thompson. La prima citazione va qui, per spiegare meglio perché non pagare per i contenuti non è una debolezza:

«è un riflesso di una realtà fondamentale: l’offerta di contenuti è infinita».

Se una cosa riflette la realtà non può essere una debolezza. E non c’è vaticinio che tenga, previsione per il futuro che regga. Così come non ha importanza controllare la produzione dei contenuti, non conta più nemmeno controllare la distribuzione:

«il fatto che Facebook non sia essenziale per la distribuzione di prodotti non è una misura della sua importanza economica, o delle sue mancanze, ma un riflesso del fatto che la distribuzione non è più un differenziatore».

Cosa conta, allora? Controllare il consumo. Delle nicchie e dei singoli bisogni specifici (pensa ad Airbnb, a Uber…) o di quasi due miliardi di singoli consumatori. Cosa che Facebook fa, avendo a disposizione anche i dati dei bisogni e dei gusti di questi due miliardi di singoli consumatori. Facebook, insomma, possiede il social graph e possiede anche i dati sui bisogni latenti dei singoli nodi del social graph.

Come se non bastasse, ti mette a disposizione anche strumenti estremamente evoluti se ci lavori da professionista. Il piccolo viaggio introduttivo nel Power editor, che abbiamo iniziato nel numero 163 e nel numero 166, è solo la punta dell’iceberg di qualcosa di molto, molto più importante e potente, che si vedrà meglio quando inizieremo a occuparci delle funzionalità di Insight del pubblico, per esempio.

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Uno degli esempi di dati aggregati che Facebook mette a disposizione (per il momento solo per il mercato USA, ma presto anche per altri) dei marketer su Facebook. Non dimentichiamoci che la piattaforma dispone non solo dell’aggregato ma anche del dato puntuale del singolo consumatore.

Insomma, mi sembra che possiamo arrivare serenamente a una conclusione: Facebook è molto potente. Ed è molto difficile che faccia la fine di Myspace, ecco. Anche se non è detto che continui ad esistere (almeno in questa forma) per sempre.

Perché Zuckerberg ha evidentemente delle mire espansionistiche a proposito delle sue attività. Mire che forse non riguardano solo la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti (perché dovrebbe limitarsi agli States, in effetti?) ma che guardano oltre. Verso qualcosa di diverso, che prima non c’era.

È questo che c’è scritto, nemmeno troppo fra le rige, in Building Global Community, il celeberrimo manifesto di Zuckerberg.

Ed ecco qui il secondo momento in cui devo ancora citare Thompson è che ha espresso nella maniera più chiara possibile la motivazione per cui il manifesto di Zuckerberg è, oltre che un delirio di positivismo e di onnipotenza, anche molto pericoloso. Ed è fondamentale, per me, usare le parole di qualcuno (nella traduzione del sottoscritto) che non può in alcun modo essere tacciato di visione anti-tecnologica. Senza contare che avrei voluto essere io l’autore di questo paragrafo:

«Il motivo per cui sono fondamentalmente sospettoso a proposito del manifesto di Zuckerberg non ha niente a che vedere con Facebook o Zuckerberg. Penso, anzi, che siamo d’accordo sulla maggior parte degli obiettivi politici. Il mio disagio, in realtà, nasce dalla mia forte convinzione che il potere centralizzato sia contemporaneamente inefficiente e pericoloso.

Non è una sola persona o una sola azienda ad essere in grado di capire le soluzioni ottimali di ciascuno di noi, e la storia è piena di esempi di pianificazioni centralizzate che apparentemente agiscono con le migliore intenzioni – almeno nelle loro menti – e il cui operato, invece, si traduce nelle più orribili conseguenze. Queste conseguenze, a volte, assumono la forma di costi palesi, economici e umanitari e talvolta queste conseguenze sono opportunità e innovazioni scontate. Di solito sono entrambe le cose».

Impariamo a usarlo. Impariamo a conoscerlo. Impariamo a capirlo e a ricordarci tutte le cose che è Facebook. È piuttosto importante, per lavoro e non solo.

[L’immagine di copertina è una foto di Michal Lis su Unsplash]