Uno dei mantra, delle parole chiave che vengono ripetute in maniera ossessiva nella progettazione della user experience è frictionless. Bisogna eliminare ogni frizione dall’esperienza di chi compie azioni di ogni genere attraverso la tecnologia.
C’è chi pensa che il futuro del business sia interamente privo di frizioni. C’è chi porta oltre il concetto dell’eliminazione degli attriti nell’esperienza d’uso, teorizzando l’anticipatory design, cioè la progettazione di esperienze che anticipino i desideri delle persone. Se la cosa ti spaventa, non ti preoccupare, perché ci siamo dentro fino al collo da parecchio tempo. Da quando, per esempio, abbiamo capito e teorizzat ocon Guillaume Ferrero (in Revenue Philosophique de la France et de l’Étranger) il principio del minimo sforzo. Era il 1894. Cinquant’anni dopo, George Kingsley Zipf costruì, sul principio del minimo sforzo, una teoria linguistica secondo la quale la distribuzione delle parole che utilizziamo dipende dalla tendenza a comunicare in maniera efficiente con meno sforzo. È una teoria – con alcune prove empiriche – che prende il nome di Legge di Zipfs.
Se è vero che gli esseri umani cercano di prendere le loro decisioni e di agire seguendo percorsi e attività che consentono loro il minimo sforzo, allora non potranno non gradire percorsi assolutamente privi di resistenza e frizione. D’altra parte, quando acquisti online, per esempio, se devi fare un percorso tortuoso attraverso mille click, prima o poi ti scoraggi.
Ecco allora che chi va alla ricerca costante della next big thing potrebbe trovare una risposta in questo articolo di Aaron Shapiro, il CEO di Huge.
Le cinque idee di Shapiro rispetto all’anticipazione dei desideri sono queste:
- pensa al tuo brand come a un servizio: che cosa permette di fare a chi lo usa?
- abilita il tuo servizio digitalmente
- valuta cosa puoi fare per automatizzare la consegna del tuo servizio
- crea l’automazione del tuo servizio
- separa nettamente ciò che è accettabile come processo di decisione e cosa non lo è
Il principio di fondo riguarda il fatto che, coerentemente all’idea di sforzarsi il meno possibile per compiere determinate azioni, le persone hanno problemi di gestione, in media, anche quando si trovano di fronte a troppe possibilità di scelta.
Nell’universo dei contenuti e delle piattaforme relazionali, in effetti, l’algoritmo di Facebook si sforza proprio di tentare di fare questo: compensare la convenienza specifica della piattaforma (monetizzare, monetizzare, monetizzare) con quella delle persone che la usano: ricevere contenuti d’interesse.
Ci sono aziende che hanno già immesso sul mercato stampanti che ti fanno arrivare in ufficio la carica della stampante prima che la precedente sia esaurita del tutto. Ci sono termometri che regolano la temperatura di una stanza sulla base delle esigenze delle persone. Ci sono start up che ti aiutano a risparmiare.
Diciamocelo: essere aiutati in questo modo dalla tecnologia a faticare meno è un bene.
D’altra parte, le prime esperienze con Solid, il “nuovo” internet di Tim Berners-Lee le abbiamo raccontate su Wolf proprio sottolineando quanto fosse drammatica l’interfaccia e quanto fosse piena di frizioni l’esperienza di chi vuole provarlo (ecco come appare oggi il mio profilo su Solid), costruendo una vera e propria barriera all’accesso per chiunque non abbia le competenze informatiche per esserci.
Secondo alcuni, queste barriere sarebbero un bene perché richiederebbero di studiare prima: per quel che mi riguarda, penso che questo sia un atteggiamento non inclusivo e invalidante di molti progressi che si sono fatti.
C’è un però a tutto questo scenario, un però che abbiamo imparato, per esempio, studiando alcune funzionalità di software che utilizziamo o di persone con le quali abbiamo parlato nel racconto della diffusione dello slow journalism nel mondo.
Il però riguarda il punto 5 delle idee di Shapiro. La linea di demarcazione non dovrebbe essere, secondo me, tra ciò che è accettabile come processo di decisione e ciò che non lo è, ma tra ciò che richiede una decisione consapevole e ciò che non lo richiede.
Quando firmo un consenso privacy, lo ammetto, trovo l’informativa talmente lunga, incomprensibile, inutile, che clicco “sì” senza pensarci troppo, se quel che mi propone il servizio mi serve. Eppure è evidente che se voglio davvero fare in modo che tu abbia a cuore la tua privacy e che tu sappia come uso i tuoi dati, ti devo in qualche modo costringere a subire una frizione. Non una frizione fastidiosa e inutile come la necessità – ridicola – di scrollare tutta l’informativa o di scaricarti un .pdf. Una frizione funzionale alla necessità di farti conoscere correttamente il messaggio.
Allo stesso modo ci sono funzionalità che devono essere rallentate. In Come smettere di essere non-umani spiegavo, fra l’altro, come ho aggiunto alcune frizioni al mio percorso di invio delle newsletter. D’altra parte, Mailchimp cosa fa quando vuoi cancellare il dato di chi ti riceve?
Ti costringe a scegliere che tipo di cancellazione vuoi (con archiviazione o con rimozione. Quest’ultima scelta va fatta, per esempio, se ricevi una richiesta di rimozione completa ai sensi del GDPR).
E poi ti costringere a DIGITARE DELETE. Cioè, prima di cancellare, ti mette una frizione bella grossa, perché tu sia consapevole del fatto che stai compiendo un’azione definitiva, con conseguenze.
Lo fa, Mailchimp, perché sa quanto sia importante che l’azione di cancellazione sia volontaria e non frutto di velocità e automazione.
Ecco perché una sana progettazione di user experience prevede, sì, di anticipare i desideri, ma anche di aggiungere frizioni dove serve.
(AP)