Premessa: l’emergenza è uno scenario complesso
L’emergenza è uno dei momenti più problematici e complessi nella vita di un paese democratico perché, oltre ad essere una situazione di pericolo con conseguenze anche gravi, comporta il sacrificio di alcuni diritti fondamentali per tutelarne altri.
Pensiamo a un esempio semplice, ma efficace. Se un palazzo prende fuoco, chi ha l’incarico della sicurezza deve evacuare lo stabile e deve poter impartire ordini. Se devi salvarti da un incendio non c’è tempo di dibattere, bisogna mettersi in salvo. Che competenze deve avere chi si occupa della sicurezza di uno stabile? Deve conoscere il contesto, deve saper impartire direttive, deve sapere che direttive impartire, deve avere gli strumenti per impartirle e per mettere in sicurezza le persone, deve sapere come comunicare le direttive. E deve godere della fiducia di tutti rispetto a questo incarico così complesso e cruciale. La fiducia comporta accettazione: se devo ubbidire a degli ordini per mettermi in salvo, sarò disposto a farlo se mi fido di chi dà gli ordini. Non se ho motivi per dubitare della sua capacità di giudizio, né, necessariamente, se chi dà gli ordini grida più forte.
Una volta in salvo, l’emergenza finisce non ci sarà più bisogno di ordini e obbedienza.
In questo esempio ci sono tutte le caratteristiche che deve avere una gestione emergenziale ideale: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità.
E ci sono anche, anticipate, tutte le caratteristiche che devono avere comunicazione e informazione.
La situazione inedita dell’emergenza COVID-19 ha influito in maniera significativa su questo documento, perché ci ha messi di fronte a una serie di situazioni che non avevamo mai visto prima in tutta la loro complessità.
Comunicazione v informazione
In emergenza, comunicazione istituzionale e informazione sono due elementi cruciali.
Hanno caratteristiche e a volte anche finalità diverse ma non sono necessariamente concorrenti: sono contrappesi di un equilibrio complesso e possono persino trovare forme di collaborazione. Non sempre questo può accadere. E non sempre accade: in Italia, per esempio, durante l’emergenza Covid-19, le modalità con cui si comunica e si informa riflettono una serie di problemi e storture endemici del paese, del dibattito culturale, del modo in cui giornalismo e istituzioni si concepiscono vicendevolmente.
Nella sua relazione annuale, Marta Cartabia, Presidente della Corte costituzionale, scrive che «i momenti di emergenza richiedono un sovrappiù di responsabilità ad ogni autorità e in particolare agli operatori dell’informazione, che svolgono un ruolo decisivo per la vita sociale e democratica. In un tale frangente, se c’è un principio costituzionale che merita particolare enfasi e particolare attenzione è proprio quello della leale collaborazione». Il medesimo concetto era già stato anticipato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 5 marzo: « Il momento che attraversiamo richiede coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti»: nelle istituzioni, nella politica, nella vita quotidiana della società, nei mezzi di informazione».
La comunicazione istituzionale deve raccontare a cittadine e cittadini quel che si sta facendo in emergenza. Per spiegare come dovrebbe agire, diamo per scontato che chi si trova in posizioni apicali in un’istituzione abbia le competenze per prendere decisioni corrette – se non è così, la comunicazione può fare ben poco per ovviare al problema – e che si sia compreso che queste decisioni debbano essere raccontate.
Bisogna sapere come fare, quali parole usare. Ricordandosi, tanto per cominciare, che l’emergenza fa paura e le parole dell’emergenza fanno ancor più paura. Zona rossa, urgenza, commissario straordinario, DPCM, ordinanze: sono tutte terminologie distanti dalla vita quotidiana: richiedono di essere spiegate con competenza, chiarezza e coraggio. Persino i margini di errore e di incertezza delle decisioni che si prendono andrebbero ammessi e spiegati.
Se però si commettono o si sono commessi errori cruciali durante la gestione dell’emergenza ma anche in tempo di pace – per esempio, lasciare da parte previsione e prevenzione del rischio – diventa davvero difficile non solo dare una risposta concreta ed efficace all’emergenza ma anche comunicare correttamente. La comunicazione ha bisogno di buona politica alle sue spalle e deve saper veicolare questa buona politica.
L’informazione giornalistica, dal canto suo, deve e deve poter dar conto degli elementi positivi, negativi, critici, sia dell’azione sia delle scelte politiche sia della comunicazione istituzionale. Non può limitarsi a fare da megafono alla comunicazione istituzionale: sarebbe grave perché il giornalismo verrebbe meno alla sua funzione di bilanciamento del potere. Dall’altra parte, però, il giornalismo non dovrebbe confondere la sua funzione di pilastro della democrazia con l’idea che si è affermata nel tempo di dover per forza suscitare l’indignazione, l’ira, l’ansia, la preoccupazione, la rabbia. Dovrebbe rinunciare a proporre framing, inquadrature e racconti frammentari, poco rappresentative della realtà ma di facile presa sul pubblico (pensiamo alla caccia al runner, al drone che aiuta a sanzionare il bagnante solitario, alle storielle delle persone in coda per Pasqua nonostante le restrizioni anti-contagio: tutte storie che rappresentano nel migliore dei casi eccezioni, nel peggiore storie capite o raccontate male per l’ansia di ricordare che in Italia le persone sono allergiche alle regole. Una storia ampiamente smontata dai fatti). Dovrebbe rivedere anche le proprie ossessioni a proposito del concetto di scoop e di velocità e cercare di rivedere certi preconcetti circa le funzioni del giornalismo stesso.
Coinvolgimento emotivo e addestramento
Chi si occupa di comunicazione e di informazione in emergenza dovrebbe ricordare, tanto per cominciare, che tutte le persone coinvolte in un’emergenza (quindi anche chi decide, chi comunica e chi informa) sono sottoposte a stress, a emozioni, a paure, problemi, disagi, ansie e dovrebbero aver ricevuto prima, in tempo di pace, un addestramento specifico per essere preparate, per quanto possibile, a queste circostanze. Perché comunicare e informare in emergenza è tremendamente difficile e se non ci hai pensato prima, l’improvvisazione non ti porterà a nulla di buono.
1. Previsione e prevenzione
L’addestramento ideale dovrebbe riguardare tutte le fasi dell’emergenza e dovrebbe andare di pari passo con le fasi di previsione e prevenzione del rischio. In un certo senso, pre-occuparsi dell’informazione e della comunicazione in emergenza significa pensare a lungo termine e significa anche occuparsi della questione dal punto di vista politico.
La politica dovrebbe preoccuparsi di tutto ciò che è protezione civile a partire dalla pianificazione in tempo di pace, esaltando alcune delle caratteristiche più virtuose della protezione civile stessa. La sussidiarietà, la possibilità per cittadine e cittadini di essere parte della fase di ripristino dopo l’emergenza, la previsione, la prevenzione, la visione di medio-lungo periodo.
La comunicazione dovrebbe andare nella medesima direzione: sapere prima cosa accadrà in caso d’emergenza.
2. 5W + H anche per chi comunica
Le 5W+H tipiche del lavoro giornalistico vengono in soccorso per offrire uno schema di lavoro facile ma efficace. Queste sono le domande da porsi:
– chi comunica e a chi?
– con quali obiettivi si comunica?
– cosa si comunica?
– quando si comunica?
– dove si comunica?
– come si comunica?
A queste domande bisognerebbe dare una risposta progettuale prima di qualsiasi evento catastrofico reale. È questo il senso della previsione e della prevenzione: so che qualcosa accadrà, prima o poi. Un virus o un terremoto, una valanga o un’alluvione. E allora mi preparo. Sapendo che non dovrei usare quelle domande e le relative risposte come se fossero una griglia rigida, ma una struttura solida che consenta di muoversi anche improvvisando, quando e se occorre.
3. Il giornalismo come servizio
L’informazione dovrebbe seguire la sua strada allo stesso modo, perché anche nelle redazioni è necessario pianificare, prevedere e prevenire. Chi cura il giornalismo in emergenza deve conoscere tutte le peculiarità del contesto: cosa vuol dire decretazione dello stato d’emergenza, come leggere decreti e ordinanze, cosa vuol dire andare in deroga alle leggi, come non farsi coinvolgere troppo emotivamente senza negare l’emozione, come spiegare tutti questi concetti alla cittadinanza senza alimentare dubbi, storture, teorie del complotto, ma al tempo stesso vigilando sul fatto che non si verifichino abusi. Siccome durante un’emergenza ci sono poteri straordinari, chi ha quei poteri può riscrivere le leggi: il giornalismo deve vigilare affinché i principi di necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità vengano rispettati e deve controllare che non ci sia un abuso dello stato d’emergenza. Purtroppo, si scambia per grande giornalismo d’inchiesta la pubblicazione di una bozza di decreto. Per chiarire: non è grande giornalismo, semplicemente perché le bozze di decreto esistono sempre e da sempre circolano, sono copie-lavoro. Non sono nefandezze che qualcuno cerca di occultare. Prima di pubblicare un pezzo bisognerebbe chiedersi a chi è veramente utile quel pezzo. Se la risposta non è: cittadine e cittadini, allora forse non è giornalismo, non è informazione. Questo vale non solo in emergenza, ma in qualsiasi momento.
Il fatto è che l’emergenza accelera, ingrandisce, acuisce tutti i problemi che c’erano prima. Se non si era lavorato per risolverli allora, difficilmente si troverà una soluzione durante la crisi.
Se poi istituzione e giornalismo si trovano in una situazione di crisi di fiducia che dura da tempo, ecco che i problemi saranno ancora più grossi.
Come se non bastasse, chi comunica e chi informa, oggi, si trova di fronte a uno scenario del tutto inedito: tutti possono produrre, trasmettere, distribuire contenuti di ogni genere: video, audio, testi, foto. Questi contenuti possono essere veri, accuratissimi, falsi, un po’ veri un po’ falsi, e non abbiamo alcun controllo su di essi: l’oligopolio dell’informazione non esiste più. E allora chi comunica e chi informa dovrebbe rispondere a questo contesto alzando a dismisura l’asticella qualitativa del proprio operato, anziché rispondere in termini di velocità e di quantità. Meno è meglio.
Le parole chiave per chi comunica e informa
FIDUCIA – Cittadine e cittadini devono potersi fidare delle istituzioni. La fiducia non si costruisce in emergenza: è un percorso e si consolida in tempo di pace. È vero che durante il pericolo si tende ad avvicinarsi maggiormente a chi rappresenta le istituzioni
Allo stesso modo, lettrici e lettori, spettatrici e spettatori, devono potersi fidare dei giornali, delle trasmissioni di approfondimento, delle loro fonti di informazioni. Il rapporto Edelman racconta ogni anno un calo di questa fiducia. Bisogna agire per ricostruirla. Come? Non è banale e non si può fare in fretta.
TRASPARENZA – Uno dei requisiti per ottenere fiducia, anche in emergenza, è la trasparenza. Trasparenza rispetto alle decisioni che si prendono. Trasparenza rispetto alle fonti, alle ragioni di una decisione, al processo di costruzione di un decreto così come di un articolo di giornale.
COMPETENZA – Quando si comunica e quando si informa, generalmente, lo si fa da una posizione che in qualche modo garantisce un riconoscimento di autorevolezza da parte dei destinatari delle comunicazioni e delle informazioni. Questa autorevolezza va mantenuta mostrando sempre, costantemente, competenza e contezza degli argomenti di cui si parla.
COMPLESSITÀ DA GESTIRE – Se si abitua il pubblico a un dibattito politico e giornalistico basato sul dualismo, sulla semplificazione eccessiva, sul riduzionismo, sul bianco o nero, sul o con me o contro di me, sarà poi difficilissimo fare comunicazione e informazione quando ci si ritrova di fronte a situazioni complesse. Il caso più emblematico è quello della mascherina protettiva: utile? Inutile? Pericolosa? È stato detto di tutto e il contrario di tutto e questo non ha aiutato alla comprensione. «La mascherina serve in quanto strumento che riduce il rischio di infezione, protegge più gli altri che chi la indossa ma rappresenta anche una protezione per chi la indossa, se la utilizza correttamente (cioè coprendo bocca e naso e non toccandola con le mani una volta messa). Ne esistono vari tipi, a seconda del grado di rischio di infezione che si corre: se si rispettano le altre norme aumenta la probabilità di proteggersi e di proteggere gli altri dal contagio». Questo è il concetto che andava veicolato. Non si presta a slogan o a facilonerie e richiede di saper gestire la complessità.
CHIAREZZA – È inutile parlare in legalese, in burocratese. È inutile copia-incollare un decreto o un’ordinanza. Bisogna essere in grado di semplificare concetti complessi senza essere riduzionisti e imprecisi. Anche la chiarezza è un elemento fondamentale di comunicazioni e contenuti informativi e anche la chiarezza contribuisce ad alimentare la fiducia. Le FAQ che ha proposto il governo durante l’emergenza COVID-19, per esempio, sono spesso più confuse dei decreti che dovrebbero chiarire e i giornali non aiutano a spiegarle e a fare chiarezza.
ASCOLTO – La comunicazione e l’informazione dovrebbero, per prima cosa, mettersi in modalità d’ascolto. Cosa significa? Significa ascoltare e registrare le domande delle persone, per poi offrire a queste domande delle risposte. Le migliori possibili. Ma come si fa a comunicare o a informare correttamente se non si conoscono bisogni, problemi, paure e desideri dei destinatari dei messaggi, dei contenuti, degli articoli che prepariamo? È per questo che è necessario mettersi nei panni di chi deve ricevere comunicazione e informazione.
EMPATIA E ACCETTAZIONE – Dopo l’ascolto occorre esercitare la capacità di mettersi nei panni degli altri, accettare il fatto che le persone possano provare sentimenti negativi, paura, rabbia, sfiducia, scontentezza. La capacità di empatia va allenata e diventa uno strumento molto efficace e importante in un’emergenza: se avverto che chi mi parla, chi scrive, empatizza nei miei confronti, sento quella persona vicina a me, capisco che stiamo condividendo lo stesso momento, le stesse problematiche. Se invece chi parla, chi informa, mi biasima, mi fa la paternale, mi dice dal pulpito cos’è meglio per me, allora prevarrà la sensazione di essere infantilizzati e prima o poi ci si ribellerà. Empatia e accettazione significano anche trattare gli altri da pari.
SUSSIDIARIETÀ – È naturale aspettarsi dalle istituzioni e dai giornali autorevolezza e affidabilità. Ma se questi due pilastri del vivere democratico riuscissero anche nell’impresa di non sostituirsi alla capacità decisionale della cittadinanza e delle singole persone, ma anzi di far sentire le persone partecipi (per esempio, invitandole ad attivarsi, cercando con loro soluzioni, nuove idee e via discorrendo), allora la loro missione sarebbe un po’ più semplice, sicuramente più efficace.
DATI, METODO SCIENTIFICO E INCERTEZZA – L’uso dei dati rappresenta una sfida enorme in emergenza e non c’è altro modo che studiare come maneggiarli, come leggerli, come rappresentarli, come interpretarli, come raccontarli. Bisogna rinunciare ai facili confronti, all’idea che si possa copia-incollare l’approccio che sembra aver funzionato in una nazione per renderlo ugualmente efficace in un’altra, bisogna conoscere tutti i percorsi e gli errori frequenti quando si parla di scienza – confondere fattuale e controfattuale, per esempio. Ovvero: dare per scontato che, siccome le cose sono andate in un certo modo, allora valga una certa ipotesi anche in assenza di una controprova – e bisogna anche ricordare che la scienza stessa è un percorso di conoscenza e che non offre come risposta la verità.
Purtroppo, anche nell’emergenza COVID-19, come in altre situazioni, mentre ci si preoccupa troppo delle fake news, storici giornali riportano notizie di dubbia natura, citano studi medici a sproposito o senza reali verifiche in assenza di competenze concrete e via dicendo. Dall’altra parte, anche la comunicazione istituzionale ha commesso una serie di errori o scorrettezze notevoli: «Per molte settimane» si legge in un’analisi del Centro Studi Nebo, «la nostra Protezione Civile ha definito “nuovi casi” il saldo fra le nuove diagnosi e il numero di coloro che per morte o guarigione smettono di consumare risorse sanitarie, locuzione accettata e condivisa da gran parte della stampa italiana, obbligando a misurare questa epidemia solo in termini di carico delle strutture assistenziali (e non anche per incidenza, prevalenza, letalità, eccetera). Il risultato è stato che per settimane si è lasciato intendere che la portata del problema Covid in Italia fosse decisamente più limitata della realtà». Bisogna avere anche il coraggio di ammettere che a volte si possono commettere errori quando si comunica.
E i giornali devono essere più solerti e più capaci a distinguere errori commessi in cattiva fede da errori commessi, ad esempio, per mancanza di dati o di conoscenza.
USO DELLE PIATTAFORME E PROSSIMITÀ CON CITTADINE E CITTADINI – Bisogna essere vicini alle persone in emergenza, comunicare e informare dove si trovano, nei luoghi (virtuali e non) che frequentano, senza aver problemi o pudori rispetto alle piattaforme da utilizzare: tutto ciò che consente prossimità con il pubblico che aspetta la conferenza stampa o l’articolo d’inchiesta è più che valido. È vitale.
Per usare le piattaforme, però, bisogna conoscerle approfonditamente e poi provare. Di solito, prove e approfondimenti si dovrebbero poter fare in tempi di pace. Sempre che non si sia travolti dalla rincorsa costante al raccontare l’istante. Che un istante dopo non esiste più.
MENO-MEGLIO – Pochi contenuti mirati, molto curati, sono meglio di tantissimi contenuti privi di sostanza, con le parole buttate lì a caso giusto perché bisogna riempire uno spazio. Ogni elemento di una campagna di comunicazione e di un’articolo deve essere curatissimo quanto e più della campagna e dell’articolo stesso. Ci vuole tempo e tutto dev’essere fatto bene per convincere lettrici e lettori a fermarsi proprio sul quel contenuto, uno dei 300mila che ci sono su Google e che sembrano, almeno in apparenza, analoghi.
Ecco allora che il meno-meglio significa: smetto di produrre ossessivamente pezzi, conferenze stampa, momenti di comunicazione come se non ci fosse più tempo da perdere e mi concentro, invece sulla produzione (sulla pubblicazione, distribuzione) di pochi, grandi contenuti, di qualità, curati in ogni minimo dettaglio. Perché la consegna di un contenuto è importante quanto il contenuto stesso. Soprattutto se le scelte in termini di sovrabbondanza e di sovrapproduzione che hanno generato una vera e propria infodemia hanno inondato l’ecosistema (digitale e non) di notizie e comunicazioni parziali, scorrette, inesatte.
Foto di Denny Müller su Unsplash