A volte ci sono concetti che vengono ripetuti talmente tanto da svuotarsi dei loro significati e da essere applicati come etichette necessarie a qualunque argomento si tratti (vedi la pletora di start up che dicono di far uso di intelligenza artificiale, per esempio). Un altro di questi concetti è il termine sostenibilità. Eppure, si tratta di un argomento molto importante, cruciale. Non solo per il singolo business, ma anche in senso molto più ampio.
Ne abbiamo parlato con Andrea Illy, presidente di illycaffè Spa, a Exco (l’Expo della cooperazione internazionale).
Cosa si intende con “sostenibilità” correlata alla coltivazione del caffè?
«Significa garantirsi la possibilità di produrre caffè anche per le prossime generazioni, continuare a produrre, lavorare e consumare caffè senza compromettere la capacità delle prossime generazioni di, a loro volta, produrlo, lavorarlo e consumarlo. L’impatto del cambiamento climatico è un problema al quale bisogna reagire con strategie di adattamento, che significa anzitutto migliorare le pratiche agronomiche, ma anche sviluppare nuove varietà resistenti agli effetti delle malattie e, forse, anche sviluppare nuove aree di produzione. Questo necessita di investimenti, per i quali ci vogliono partnership pubblico-privato in cui il privato contribuisce a ridurre il rischio degli investimenti affinché il pubblico li possa fare. Questo è un esempio di strategie di sostenibilità cui si fa riferimento negli ultimi due accordi firmati tra UNIDO (United Nations Industrial Development Organization) e Cooperazione italiana: noi abbiamo già firmato con UNIDO a Vienna qualche mese fa proprio in merito a un progetto di de-risking delle filiere del caffè in Etiopia e Mozambico. Ma la sostenibilità è economica, sociale e ambientale, la cosiddetta “triple bottom line” e tutti e tre questi aspetti sono interconnessi.»
Da dove cominciare?
«Prezzi equi per la qualità, quindi pagare il valore delle materie prime e su questo noi di Illy siamo stati pionieri con il direct-trading. Paghiamo un premio di produzione per la qualità che è mediamente del 30%, un premio inversamente proporzionale ai prezzi della borsa: più bassi sono e più alto è il nostro premio, per assicurare un prezzo sostenibile. Fatto questo bisogna mettere il produttore in condizione di produrre con la qualità che noi poi compriamo e per questo occorre fare trasferimento di conoscenza, cosa che fa la nostra Università del Caffè, che abbiamo costituito anche in Etiopia come training center.»
Quale è l’impegno dell’Università del Caffè dal punto di vista pratico?
«Trasferiamo il saper-fare dall’azienda al mercato tramite l’Università e poi produciamo attività didattica: docenze, materiali didattici, programmi, aule, sono un impegno e un investimento. L’Università del Caffè nel 2019 festeggia i suoi 20 anni: ha 28 sedi nel mondo, oltre 28.000 partecipanti l’anno e da quando è nata ha visto 265.000 “studenti”. Non ci sono solo produttori di caffè: ci sono tanti esercenti e anche consumatori, ragion per cui l’Università ha tre dipartimenti.»
Uno dei punti più critici nella catena di approvvigionamento del caffè è la differenza di ricavi tra il produttore e il tostatore, una differenza sostanziale che è uno dei temi principali relativamente la “sostenibilità sociale” del caffè. Che politica adotta Illy con i suoi produttori?
«Promuoviamo la qualità sostenibile a tutto campo: posto che parliamo di un prodotto voluttuario, il caffè più buono se ne beve di più e lo si paga più caro e questo crea un circolo virtuoso. Il prezzo in più pagato dal consumatore può essere poi riconosciuto al coltivatore. Se uno quel costo maggiore se lo mette in tasca probabilmente non avrà mai la qualità che soddisfa il consumatore e il circolo virtuoso diventa vizioso. Per farlo, e far arrivare i soldi nelle tasche degli agricoltori, bisogna avere una filiera integrata verticalmente verso l’alto: noi lavoriamo con le nostre case esportatrici che comprano direttamente dagli agricoltori bypassando tutti gli intermediari, oppure con intermediari esclusivi, una forma di affiliazione, che lavorano con le stesse politiche ma in esclusiva per noi.»
Ribaltando invece il paradigma dal punto di vista del consumatore, come si racconta questa filiera e come si giustifica, alla fine, il costo del caffè all’utente finale?
«La prima comunicazione è la marca, rendere il brand attrattivo, conosciuto, amato e rispettato. Questo è il campo del marketing e del branding. Poi c’è una parte più granulare, far sapere il nostro saper fare: l’approccio alla produzione, alla tecnologia, alla qualità, il lavoro nelle piantagioni e così via. Una delle iniziative più importanti in assoluto che abbiamo è il Premio Internationale Ernesto Illy che diamo ai tre finalisti dei nove paesi del nostro blanding, che ogni anno vengono premiati alle Nazioni Unite. Un premio, soprannominato l’Oscar del caffè, che è piaciuto molto al mercato e che da orgoglio a chi produce, un’occasione soprattutto di mettere in contatto il produttore e il consumatore realizzando il sogno di entrambi perché anche i consumatori non vedono l’ora di conoscere chi produce. E viceversa. Per chi vuole diventare un intenditore invece ci sono i corsi dell’Università del caffè, fino ad arrivare all’unico Master in Coffee Economy and Science esistente al mondo, che facciamo da 9 anni e che ha circa 30 studenti da tutto il mondo.»
Sembra un po’ la linea che si è adottata in campo enologico.
«Il consumo esperienziale del caffè è in una certa misura paragonabile a quello del vino, anche se quest ultimo è un prodotto da degustazione con esperienza di consumo lunga mentre il caffè è veloce. Detto questo la degustazione del caffè va sempre più di moda. C’è poi l’aspetto della differenziazione del prodotto: nel vino ci sono migliaia di cultivar diversi, 400 monovitigni solo in Italia, e questo garantisce una grande biodiversità. Il caffè ha poche cultivar, sono soltanto 33, e molto simili tra loro: il genoma del caffè è importante e la variabilità fenotipica è abbastanza bassa. C’è tuttavia una tendenza ad una crescente differenziazione di gusto, anche nel caffè. Stimolare nuove varietà ibride va sicuramente in questa direzione. E poi c’è un altro filone, oggi agli inizi, che è lo sviluppo delle nicchie ecologiche, l’equivalente dei “terroir” come vengono chiamati nel vino. Abbiamo scoperto di recente che la bontà del caffè di alcune zone del Brasile è legata alla presenza di un particolare lievito presente nell’aria, proprio come avviene nel vino: è l’inizio di un percorso che darà luogo a una differenziazione sempre più alta. Rispetto al vino il caffè si può differenziare maggiormente con le preparazioni e in questo la regina è proprio l’Italia: espresso, moka, napoletana e tantissime altre preparazioni possibili. E poi ci sono le gradazioni di tostatura, come Illy ne abbiamo tre diverse ma se ne possono fare molte di più: i miliardi di possibili combinazioni arrivano all’unicità. Noi abbiamo sviluppato una app, presentata a Expo2015, con la quale il cliente può scegliere il grado di tostatura e altre caratteristiche del caffè che poi gli consegneremo: il principio è passare dal “one bland for all” a “one blend for everyone”.»