Siamo sicuri che tutto quello che serve debba avere uno scopo? Sono la fan numero uno del design e del pensiero strategico, cioè orientato a una soluzione, al raggiungimento di un obiettivo, ma a volte il modo migliore per raggiungere un obiettivo è lasciare tutte le possibilità aperte, come nella ricerca pura. Si chiamano “finestre di opportunità” e si aprono dove meno te lo aspetti, ma si aprono solo se crei le condizioni giuste.
È uno dei motivi per cui community management e social media strategy sono metodi e tecniche così elusivi, ambigui e sempre al confine con la fuffa: servono eccome, ma non sempre si può decidere prima a cosa, o come, o quando. L’inferno per chi è in cerca di sicurezze, il paradiso per chi preferisce scoprire la storia via via che l’autore crea le condizioni per farla andare nella direzione desiderata.
Anni fa, per esempio, un editore di riviste femminili mi chiese aiuto perché le persone non seguivano le indicazioni di una rubrica di community. Era lo “Street Memo” e la richiesta era apparentemente semplice: seguendo l’onda di The Sartorialist le lettrici erano invitate a uscire, fotografare le persone di cui apprezzavano gli outfit, chiedere loro una liberatoria e i riferimenti dei capi indossati e mandare le foto con relativa scheda alla redazione, che avrebbe pubblicato le più belle. In pochi giorni arrivarono centinaia di foto, ma sbagliate (almeno secondo le intenzioni della redazione). Le persone non mandavano foto di strada, ma autoscatti (i selfie non esistevano ancora); non fotografavano gli altri, ma sé stesse.
Il motivo era semplice: fotografare gli estranei per strada non è semplice, per niente. Rubare una foto è difficile, chiedere il permesso di farlo impegnativo, ottenere la liberatoria alla pubblicazione online (nel 2006) e tutte le informazioni sui capi indossati proibitivo. Molto più semplice e divertente pubblicare sé stessi: vestirsi bene, mettersi in posa, compilare la scheda e mandarla.
La mia risposta alla domanda “come facciamo a farci mandare le foto fatte per strada” fu, come quasi sempre nella mia vita professionale, un po’ difficile da digerire, e cioè: “perché volete una brutta copia di The Sartorialist quando potete avere qualcosa di inedito?”. Avendo un cliente intelligente, passati i primi momenti di smarrimento, la direzione divenne chiara: libertà assoluta di mandare le foto di chi volevi e dove volevi, purché fossero belle foto (cioè non foto di te in cucina con dietro la pattumiera o amenità simili). In questo caso, tra l’altro, l’obiettivo da raggiungere non cambiava: quel servizio lì serviva ad aumentare il numero di pagine pubblicate (e viste) senza aumentare il costo di produzione delle pagine e a mettere le basi per attivare una community di persone interessate ai temi del giornale, cioè beauty, moda e lifestyle.
Un servizio di questo tipo è un buon esempio di attivatore di community latenti, perché era possibile anche commentare le foto pubblicate (con moderazione a posteriori) e chiacchierare con le altre lettrici, un po’ come facciamo oggi su Instagram (che non esisteva).
Come detto già diverse volte, se sei un editore e vendi pubblicità, questo tipo di servizi (se il costo di moderazione non diventa troppo alto) ha una ricaduta abbastanza immediata sul fatturato (nonostante si continui a pensare che le pagine di community valgano meno di quelle giornalistiche, miopia di cui torneremo a parlare).
Ma per un’azienda? Approfitto della domanda di Simona Castellani, sul gruppo di Wolf, perché rappresenta benissimo la voce del cliente:
«qual è il vantaggio per l’azienda che riesce ad avvicinare le persone tra di loro e che quindi va oltre l’obiettivo di avvicinarle al proprio brand? Avere maggiore engagement? Non farle uscire dalla pagina Facebook? Ottenere la loro fiducia? Far fare loro (alla community) quello che l’azienda vuole? (L’azienda vuole che i membri della community diventino clienti e ambasciatori, ecc)».
Come penso sia chiaro da quanto scritto finora una risposta chiara, precisa e misurabile non è possibile.
Permettetemi una posa da guru: se avete bisogno di una risposta precisa a questa domanda, lasciate perdere le community.
È come chiedersi perché essere gentili. Ma io non sono una guru e Simona è una professionista intelligente, quindi ho una risposta vera: le community servono ad aumentare la fiducia in circolazione, perché trasformano Aziende e Clienti in persone che si conoscono, si chiamano per nome e parlano tra di loro.
La fiducia è la base del passaparola (tracciabile e non), il passaparola è – dovrebbe essere – l’obiettivo ultimo di qualunque strategia di marketing, oggi.